The Post
Magistrale corollario del cinema civile di Steven Spielberg: un cinema che, inquadratura dopo inquadratura, ripensa il tempo.
"L’avete visto The Post? Dico solo che Spielberg è il migliore nella storia a muovere una macchina da presa. L’ho visto l’altro giorno e non riuscivo a credere a quanto fosse bravo a lavorare con un numero incredibile di attori nella stessa piccola stanza. Ha messo dieci persone in un soggiorno e tutti si muovevano sembrando così naturali e la macchina da presa danzava attorno a loro e questo è miracolo da palcoscenico e un grandioso lavoro nell’utilizzo stesso della macchina da presa. Non vedo l’ora di rivederlo, per capire ancora meglio in che modo ci è riuscito”. (Paul Thomas Anderson)
Lasciamo perdere, per un istante, quest’incredibile riscrittura della storia americana che il cinema civile di Steven Spielberg sta portando avanti da diversi anni. Soffermiamoci, per un altro istante, sulla messa in scena di The Post. Parliamo di come ogni singolo movimento di macchina crei pure geografie emozionali, come se le scelte formali di Spielberg, dalla prima all’ultima, fossero il calco preciso, sintomatico, di un umore. Assisteremo allora a un magnifico concerto di linee orizzontali, verticali e oblique, che danzano allo scorrere di un carrello. Volti, dettagli, ingranaggi, disegni di forme volte a inseguire il moto verticale del film (fin dalla scalinata infinita dell’affiche).
L’informazione nascosta (quella dei Pentagon Papers) ribolle verso l’alto, supera gendarmi e barriere e, con forza prorompente, deflagra in superficie. Si attende la stampa con lo stesso pathos, la stessa speranza con cui ci si augurava che Peter Pan tornasse a volare. Questa, d’altronde, è una storia di uomini prima ancora che di forme. È la storia di Kay Graham e del dilemma morale che la corrode: tutto The Post ruota interno a quella scelta, pubblicare o non pubblicare? Cosa significa fare la cosa giusta?
Qui il cinema si fa sentire nel suo afflato più vorticoso: una profusione musicale di movimenti e contromovimenti dove la coscienza esce dalle comfort zones, dove la giustizia scivola in un crinale in cui dubbio, lealtà e paura aprono le danze. Il film diviene un crocevia di tensioni, una complessa macchina cinematografica che produce conflitti a livello esponenziale.
Solo Spielberg può trasformare un soggiorno nel palcoscenico della Storia: anche qui alle linee centrali (il Washington Post, il Vietnam, la politica) alterna quelle periferiche (una bambina che vende limonate ai giornalisti, una figlia che ascolta le parole mai dette della madre). La Storia emette i propri riflessi nei singoli, si moltiplica, eccede naturalmente la cronaca.
The Post vive nella totale convivenza fra pubblico e privato, eroe e doppio, centro e periferia, fra la luce e la sua rifrazione. Non c’è nessun determinismo nel cinema di Spielberg, la Storia non è un’entità astratta che fa il suo corso, ma è la somma di tutte quelle individualità, di tutti quei gesti, di tutte quelle piccole o grandi decisioni che ne cambiano la direzione. È una storia di uomini: lo sguardo moltiplica i suoi controcampi, i volti si sommano in un coro polifonico e, a un certo punto, ci sembra di trovarci nei ritmi indiavolati di una commedia wilderiana.
La lezione di Spielberg riguarda il tempo e la sua rappresentazione. Il tempo del pensiero, dilatato nei primi piani contriti di Meryl Streep - una delle rare attrici capaci di dire tutto perfino in un impercettibile cambio di espressione. Il tempo dello spazio, perché ogni luogo ha una vita, un carattere e una storia, ogni luogo ha una propria personalità: pensiamo ai rigorosi movimenti di macchina che esplorano i locali del Washington Post o la casa di Ben (un Tom Hanks struggente e misuratissimo) con il medesimo pudore, la medesima grazia con cui si filmerebbe una lacrima. Questi ambienti gravidi di persone sono il set ideale di un film che crede ancora nell’istante, nella sosta, nella stasi prima dell’azione: il tempo dell’attesa, il tempo del dubbio, il tempo della riflessione. Un tempo che non conosce l’istantaneità della rete. Nell’amore viscerale per il dettaglio, nella centralità degli oggetti e dei meccanismi che furono, The Post è un inno al potere analogico. Un’ode alla presenza, alla tangibilità, al procedimento manuale, al meccanismo di stampa osservato con lo stesso sense of wonder che ammaliava Elliott e i tanti eterni bimbi sperduti del cinema spielberghiano.
Spielberg isola i procedimenti, lascia che l’oggetto prenda il suo tempo e assurga a punto di vista, a sguardo sulle persone e le cose. Filma la stampa di un giornale con lo stesso dinamismo con cui mette in scena la guerra in Vietnam: del resto The Post parte proprio da lì. Dal fango del campo di battaglia si finisce all’inchiostro nero della stampa. In tempi di fake news, di nativi digitali, l’imprinting morale di Spielberg non poteva essere più evidente: il suo è sempre stato un cinema profondamente politico. Tra le fughe prospettiche della redazione del Washington Post, non c’è punto macchina che non stabilisca una tensione perenne con i personaggi: basti pensare a quel momento indimenticabile in cui Kay Graham si ritrova ad affrontare la telefonata più difficile della propria vita. La macchina da presa volteggia lentamente sopra la donna, in un’inquadratura plongée che blocca il tempo della Storia.
Per amore di chiosa: nel 2018 abbiamo bisogno, più che mai, di Steven Spielberg. E non è la solita asserzione che reagisce ai tempi trumpiani, non è il facile pleonasmo di chi difende un’altra America alla stregua dell’Isola che non c’è. Il discorso è un altro: abbiamo bisogno di Steven Spielberg per tornare a credere nelle fate che abitano il quotidiano. Nel cinismo dilagante dei mezzi di informazione, della politica e di tanto, troppo, cinema e televisione, Spielberg rappresenta il bagliore gentile una volta custodito da Frank Capra, il lume che incendia la lavina di immagini sintetiche che ci sommergono quotidianamente. Il suo cinema è, ed è sempre stato, un atto di resistenza. The Post, ancora più de Il Ponte delle Spie, funge allora da corollario di un’intera carriera. In tempi dominati dalla serialità televisiva, da immaginari preconfezionati e da estetiche usa e getta, il film di Spielberg insegna, prima di tutto, l’unicità del cinema, la sua specificità troppo spesso trascurata: l’invenzione - o la reinvenzione - di un tempo altro. E pensare che tra due mesi uscirà un film così diverso come Ready Player One non fa che confermare - come se ce ne fosse ancora bisogno - che siamo di fronte a uno dei più grandi narratori viventi.