Selma - La strada per la libertà
Film in equilibrio fra retorica e sguardo personale, che riapre una ferita storica ancora attuale
Se ogni racconto è una forma di metabolismo del vissuto, si potrebbe ben dire, a guardare la produzione cinematografica degli ultimi anni, che due sono i principali traumi storici che la cultura occidentale sembra aver finito per assimilare completamente: la deportazione ebraica compiuta dal Nazismo e il trattamento subito dai neri americani prima con il fenomeno dello schiavismo e dopo, con la segregazione razziale. A partire dall’elezione di Obama come Presidente degli Stati Uniti nel 2008, il cinema americano ha moltiplicato le storie di schiavitù (12 anni schiavo) e di rivalsa razziale, come le due pellicole che il regista Lee Daniels ha dedicato all’argomento, Precious e The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca; al punto tale che, con un tocco di malignità, si potrebbe affermare che ormai da qualche tempo ogni anno, oltre al prevedibile film sull’Olocausto sempre in uscita nelle sale intorno al 27 Gennaio, Giorno della Memoria, è possibile aspettarsi un altro film su una persona di colore che cerca di superare le avversità del razzismo.
Selma – La strada per la libertà è, in questo senso, una sorta di ribaltamento rispetto al The Butler uscito l’anno scorso, di cui ripropone anche alcuni interpreti (Cuba Gooding Jr e Oprah Winfrey, inarrestabile paladina televisiva e no dei diritti civili afroamericani) e situazioni. Se però nel film di Lee Daniels la violenza degli scontri era solo parzialmente rappresentata e il protagonista si trovava al servizio della Casa Bianca, qui tutto cambia, e l’uomo venuto a parlare con il Presidente Lyndon B. Johnson nulla ha di remissivo e accondiscendente. Si tratta di Martin Luther King, che alla fine del 1964 decise di dedicare tutto il suo impegno alla rivendicazione del diritto al voto delle persone di colore. Sulla carta erano sì già libere di farlo, ma nei fatti osteggiate in ogni modo, in special modo dalle amministrazioni del Sud ancora legate al passato schiavista.
Il braccio di ferro fra il pastore e il presidente si concretizzò in una serie di marce storiche a partire da Selma, città dell’Alabama – uno degli stati più razzisti del paese - i cui partecipanti subirono da parte della polizia, in collaborazione con i cittadini bianchi del posto, ripetute, violente aggressioni di massa. Malgrado la tensione, le minacce e le pressioni King tenne duro e vinse: nella primavera del 1965 Johnson annunciò al Congresso che avrebbe presentato una nuova legge sul voto (la Voting Rights Act, che fu varata 5 mesi dopo), ma questa vittoria civile non avrebbe impedito al reverendo di andare incontro alla morte nel 1968, ucciso da un colpo alla testa in circostanze ancora oggi misteriose.
Narrare eventi così gravi comporta sempre il rischio della retorica, in particolare quella relativa al martirio: lo testimonia l’inevitabile stereotipizzazione della persecuzione nazista e i risultati scolastici, da compitino delle medie, degli ultimi film, citati all’inizio di questo articolo, sulla lotta per i diritti civili afroamericani. Selma – La strada per la libertà non è esente da questi errori, e la voglia di risultare allo stesso tempo un film biografico e un collettivo racconto storico genera spesso uno stile manierato, conscio di raccontare un pezzo di storia con la S maiuscola. Eppure, in un momento così strano dal punto di vista dell’etica dei valori, mentre si piange la perdita degli ideali o al contrario la loro furiosa estremizzazione fanatica, una vicenda di ingiustizia così palese e in fondo recente – non a caso gli scontri di Ferguson, avvenuti l’anno scorso dopo l’assassinio di un afroamericano disarmato da parte di un agente di polizia, rivelano un problema culturale irrisolto – sembra interrogare lo spettatore su concetti forse dati per scontato, o cinicamente ridimensionati. Ma a quanto pare Libertà, Giustizia, o semplicemente il diritto elementare di vedersi riconosciuti come persone con una dignità, sono temi che non detengono ancora un ruolo preciso e indiscutibile nella nostra civiltà, per cui non rimane da chiedersi, Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa chiamare uomo?