Riotsville, U.S.A.
Tra utopia e distopia, tra Erroll Morris e Jordan Peele, un documentario che porta alla luce certi lati oscuri dell'inconscio collettivo americano mettendo in crisi la pretesa stessa di raccontare il Reale. Miglior documentario al TFF40.
L’avvertenza è di affrontare Riotsville U.S.A. dalla giusta prospettiva. Il rischio è in effetti quello di considerare il doc di Sierra Pettengill un progetto ai limiti del fuori tempo massimo e, dunque, di cadere in un baratro da cui certe illuminazioni che emergono tra i fotogrammi siano difficili da percepire. Perché la storia di questi tre centri di addestramento grandi come una città della provincia americana, voluti dal governo americano negli anni ‘70 per addestrare le forze di sicurezza alle variabili di una guerriglia urbana sempre più centrale in quel momento, tra movimenti di liberazione dei neri e rivolte di sinistra, è ricostruita seguendo un percorso affascinante ma paradossale. Guarda in effetti al rigore di un maestro come Errol Morris, Sierra Pettengill. ma pare fermarsi lì, ignorando, ad esempio, il lavoro di filosofi che hanno riflettuto prima di lei sulle intersezioni tra guerriglia, rappresentazione e dispositivi di controllo come Paul Virilio. Ma magari è solo un gioco specchi, forse il centro di ogni discorso è da tutt’altra parte. Per Pettengill quel linguaggio, così scarno, essenziale, assomiglia in effetti molto più a una rete utile a contenere un flusso di dati e immagini particolarmente fragile. Perché carico di un’intrinseca necessità di affermazione ideologica, perché, soprattutto, liberato dopo cinquanta anni d’attesa.
Si potrebbe davvero scrivere molto del processo creativo alle spalle di Riotsville, U.S.A., nato da un’affascinante azione di esorcismo dell’immagine operata da Pettengill, che costruisce il racconto attingendo a filmati informativi sul progetto prodotti dai canali governativi e da contributi della PBL, la rete televisiva pubblica americana, affrancando, dunque, le sequenze dai loro utilizzi primordiali, legati in parte alla propaganda e al racconto orientato e trasformandoli in strumenti di riflessione politica. Non è la prima, certo, ad adottare un approccio di questo tipo, eppure, qui, tutto il fascino dell’operazione nasce da un curioso atteggiamento piratesco. Non soltanto perché il gesto filmico rimodula, ripensa, riattraversa un archivio dichiaratamente free in piena consonanza a una forma mentis digitale, ma soprattutto perché da quel mondo, che è poi, in senso lato, il mondo dell’hacking, dell’infiltrazione, della riconfigurazione di uno spazio noto a proprio vantaggio, la regista mutua una straordinaria, inattesa ironia nei confronti dell’ideologia sottesa a quei materiali. Tutto parte da un fondamentale cambio di punto di vista. Perché sebbene nel tessuto del film non manchino lucidissime riflessioni dalla prospettiva degli oppressi (a partire, forse, da un dibattito sulla police brutality condotto dai rappresentati della comunità afroamericana straordinariamente contemporaneo per il modo in cui la blackness ragiona su sé stessa), Riotsville U.S.A. è un progetto che non abbandona mai la presa sugli oppressori.
Vien da sé, allora, che quello alla base del documentario sia un flusso di input magmatico, diseguale, straniante, pronto a reagire in modo imprevisto a seconda dei punti di contatto che sviluppano i singoli fotogrammi, in costante rischio di finire nel baratro del non senso. In un primo momento Riotsville si rivela un vivace pamphlet su un inconscio collettivo inconsapevolmente piegato alle leggi dello spettacolo e della rappresentazione (quanto action, quanta sci fi, quanta “costruzione simbolica” c’è, in fondo, in quelle esercitazioni organizzate anche a uso e consumo dei ranghi dell’esercito seduti tra le tribune e opportunamente catturate dagli obiettivi della propaganda?), ma soprattutto dominato da un’inesauribile fantasia di controllo sul più debole. Proprio a partire da questa premessa il progetto non può che mutare, allontanarsi sempre più dal Reale e divenire escrescenza grottesca dell’American Way Of Life. E allora tanto vale rimanere su questo spunto, sembra lasciare intendere tra le righe Pettengill, tanto vale far saltare il tavolo, continuare a ragionare sulle immagini assecondandone il paradosso intrinseco.
E certo la regia è in effetti abilissima ad attraversare l’entropia senza guardarsi indietro, ad esempio interpolando seriosi estratti di dossier informativi a momenti evidentemente più ironici, in cui si attarda sui fuori onda, come a tentare di rompere il quadro del protocollo; o ancora, quando interrompe il flusso del racconto con esibizioni musicali o addirittura indugia su certi bizzarri exploit del montaggio, come quando a un report repubblicano che guarda con allarme a una manifestazione della comunità afroamericana segue lo spot di un insetticida che promette di “liberarsi di quegli insetti una volta per tutte”.
Ecco allora che la cartografia di riferimenti con cui si interfaccia Riotsville, U.S.A. viene ripensata in modo inusuale. Il rigore delle indagini è sempre lì, in effetti, ma man mano che il sistema si avvicina all’orlo del baratro il film sembra sempre più un outtake del clamoroso Infomercials di Adult Swim o un progetto supervisionato tanto da Jordan Peele o da Flying Lotus quanto da Joshua Oppenheimer. Lo raccontano bene certe grandiose epifanie da cui il racconto pare sempre più affascinato: l’anziana bianca che impara a sparare e, innocentemente, chiede all’istruttore quali sono i punti più letali verso cui indirizzare i colpi; i reporter che, nel fuori onda, ridono dell’assurdità del progetto Riotsville; i giovani neri che, fieri, si arruolano nella squadra anti rivolta. Alla lunga, immerso nel paradosso, il sistema non può che andare in mille pezzi. Ma probabilmente la forza del film è tutta qui, nella sua capacità di mutare costantemente forma fino a lambire territori normalmente preclusi a un documentario. Quelli, ad esempio, delle storie di fantasmi, gli stessi, a cavallo tra il presente ed il passato, che infestano le immagini nella forma di elicotteri che gettano lacrimogeni sui rivoltosi come farebbero con il napalm in Vietnam. Ma ci sono anche suggestioni quasi da sci-fi, profezie, iperstizioni Fisheriane, stimolate, ad esempio, da un figurante nero che finge di subire maltrattamenti dalla polizia anticipando le vicende dei vari Rodney King e George Floyd, oppure amplificate da una convention democratica in cui fa capolino un manifestante vestito da indiano, sorta di prologo simbolico al Jake Angeli dell’assalto al Campidoglio del gennaio 2021.
Forse, tuttavia, la mutazione più sconvolgente è quella attraverso cui il documentario di Pettengill diventa tanto una distopia del potere quanto un’utopia della rivolta, nutrita, in un certo qual modo anche da quell’ideologia Repubblicana che prende atto dei suoi limiti e attacca sottotraccia i suoi rappresentanti.