Corsini Interpreta a Blomberg Y Maciel
Mariano Llinás, Ignacio Corsini, El Pampero Cine, la storia in divenire di una nazione e un Cinema senza più confini
Fatto raro nell'era streaming, una delle proposte espressive più originali sviluppate dall'intero panorama cinematografico mondiale negli ultimi due decenni sembra essere passata completamente sotto i radar dei divulgatori. Al netto di qualche fugace apparizione a Venezia, Locarno e Torino, i lavori del Pampero Cine sono a tutti gli effetti un fenomeno di culto, come si sarebbe detto un tempo: il grande pubblico è tagliato fuori, i pochi adepti ben si guardano dal diffonderne il verbo (quasi che l'esposizione mediatica possa incrinarne il miracoloso equilibrio), ed ecco che il collettivo argentino si presenta ad oggi come una specie di segreto per iniziati.
Di cosa si parla: più che una casa di produzione, El Pampero Cine è una sorta di factory indipendente sviluppatasi attorno alla figura del regista-produttore-ideologo di riferimento Mariano Llinás. L'atto di nascita è formalmente datato al 2002, con l'autoproduzione del documentario Balnearios: a seguito del piccolo successo, l'autore radunò attorno a sé dapprima l'amico DOP Agustín Mendilaharzu, completando in seguito il gruppo con gli scrittori e producer Laura Citarella e Alejo Moguillansky. Il nucleo storico si è negli anni arricchito di nuovi collaboratori, i quali tutt'oggi sviluppano i propri piccoli lavori partecipando ognuno all'opera dell'altro, in scrittura, produzione, riprese e recitando, in un particolare clima da riunione tra amici. Llinás resta il nome più importante: Corsini interpreta a Blomberg y Maciel, presentato a Torino, è il suo quarto film in vent'anni.
La contestualizzazione di Corsini interpreta a Blomberg y Maciel non può prescindere da un più preciso inquadramento del suo autore.
La chiave interpretativa del mondo per Llinás e i suoi sta nel rifiuto della sintesi, compromesso vissuto come tradimento artistico alla complessità umana. I mastodontici progetti precedenti erano caratterizzati dal bizzarro equilibrio tra ridondanza dello slancio romanzesco, e la relativa nullità dei mezzi: un cinema fluviale teoricamente impossibile quanto irresistibile nel risultato, interpretazione filmica del postmodernismo letterario di DeLillo e Pynchon (per tacere degli inevitabili Borges e Calvino), pure radicata nei riferimenti più popolari e accessibili.
Il capolavoro del 2008 Historias Extraordinarias fu la pietra angolare, Ulisse cinematografico di quattro ore in venti divagazioni, articolate sulla traiettoria sbieca di tre protagonisti senza nome nel nulla delle pampas. Al totale parossismo si sarebbe spinto il successivo La Flor (2018, 14 ore e passa): tre primi tempi senza finale, una miniserie in sei puntate, un meta-backstage, un remake di Renoir e il surreale terzo atto di un kolossal inesistente. Più che un film, un intero festival cinematografico contenuto, in cui convergevano dieci anni di riprese semi-improvvisate da troupe e cast, come accumulo di annotazioni poetiche.
La legittimazione della tv ha tolto l'aura di impenetrabile sacralità attorno alle narrazioni audiovisive sopra le due ore, la cui fruizione non è oggi più assurda a pensarsi di qualunque miniserie. Nonostante le premesse, anche la proposta di Mariano Llinás è tutt'altro che esoterica: la sua allarmante vastità non è mai sfida intellettuale, ma esigenza dettata dal vitale bisogno di raccontare.
Paragonabile a nulla, e insieme eterno come l'epica omerica, è un cinema tutto per la testa e nulla per gli occhi, frustrati dalle sghembe riprese digitali "rubate" e fuori fuoco. Chiede allo spettatore l'atto di fede anti-cinematografico di credere alla parola prima che alle immagini, collocandosi così su un piano a sé nell'affollata cronistoria dei "film infiniti" – terra selvaggia di provocazione sperimentalista battezzata dallo Sleep di Wharol e confluita nelle istallazioni museali, evolutasi dall'Out di Rivette fino al cinema lento alla Lav Diaz, sfiorando il regno immaginario delle opere inesistenti come il fantasticato Magellan di Hollis Frampton, film lungo un anno rimasto allo stato di progetto.
Il piccolo e (relativamente) tradizionale Corsini interpreta a Blomberg y Maciel libera infine Llinás da questi pesanti confronti, riportandone l'opera al classico ordinamento dei cento minuti. Nella sua economia, è paradossalmente anche il film più ambizioso e importante dell'autore, postfazione integrante e necessaria a tutte le ore di girato dei vent'anni precedenti.
Inaugurando la documentaristica "Saga de los Martires Unitarios", Llinás riallaccia infine El Pampero Cine al terzo cinema evocato nel Manifesto di Fernando Solanas, fondamentale atto di nascita del cinema terzomondista per decenni identificato all'estero con l'intera produzione argentina. Corsini sovverte il disimpegno giocoso delle precedenti opere, esplicitandone la funzione storica in un improbabile film musicale: l'esibizione del cantante Pablo Dacal, chiamato a risuonare in una casa affittata a Buenos Aires sei pezzi di "Corsini interpreta a Blomberg y Maciel", mitologico album della canzone popolare locale. Sei melodrammatiche canzoni di amore e morte sullo sfondo della dittatura di Juan Manuel Da Rosa e delle guerre civili, incise nel 1929 dal chitarrista Ignacio Corsini su testi dei parolieri Hector Blomberg e Enrique Maciel, e resuscitate dai tre autori (il regista, il musicista, l'immancabile DOP Mendilaharzu) come parabole fondanti del Paese intero.
Ogni film di Mariano Llinás parla in primo luogo della propria realizzazione, e anche il suo documentario storico-musicale non testimonia che se stesso. Ad accompagnare l'esecuzione dei brani sono le immagini della sua faticosa organizzazione, prove e provini, la vana e frustrante ricerca dei luoghi da filmare e del materiale da studiare (con tanto di unboxing in diretta dei volumi ordinati online). E ovviamente il dibattito, il confronto anche personale degli autori con ciò che vanno girando. Al dogma autoriale dell'opera monolitica è anteposta quella di una realizzazione espansa, caoticamente in progress, che trova in ciò che avviene "dietro" la camera l'anima e il motore del film stesso. A regnare è solo l'esagitata allegria di coinvolgere ognuno, dai figuranti allo spettatore stesso, nel processo in atto del filmmaking.
L'analogia del racconto come di un viaggio senza partenza e senza arrivo attraversa l'intera produzione del collettivo.
Programmaticamente evocati negli spazi liminali del paese, La Flor e Historias Extraordinarias suggerivano già un cinema come fabbricazione ex novo di realtà in divenire. Se quel dittico si proponeva di esplodere le potenzialità inespresse della fiction in tre atti, Corsini interpreta a Blomberg y Maciel è soltanto l'intro di un film che, potendo, non finirà mai. Messa in scena del mondo che non si rassegna a morire, anzi implora di ripartire - perché il racconto collettivo di una nazione è un testo da riscriversi continuamente, e non basterebbe un lungometraggio per ognuno dei suoi abitanti passati e presenti ad esaurirlo. L'unica conclusione possibile sta nel rimettere il prossimo capitolo a una mano giovane e non ancora stanca, che riparta di nuovo con un altro brano. Invito alla ricostruzione dal basso della Storia intera, film infinito che nessun titolo di coda possa più fermare.