Jing è una giovanissima ragazza sordomuta, il suo mondo è un microcosmo di luoghi e di persone, ma anche da questi è pronta a fuggire voltando le spalle irretita ad ogni cosa che mini quell’instabile equilibrio faticosamente eretto, relegandosi all’ultimo stadio del suo malessere: la solitudine. Mei è una ragazza di carattere, musicista e giovane ostinata, ragazza ribelle e solitaria, compagna di un funzionario della polizia locale. I mondi di queste due giovani donne sono antitetici e pronti a scontrarsi l’uno con l’altro se solo venisse data loro l’occasione. Zhang è l’occasione. Padre di Jing e compagno di Mei, è obbligato – malvolentieri – a costringere le due donne dentro lo stesso appartamento a causa della gravidanza della sua compagna e dell’indisposizione della figlia a vivere con la madre ed il suo compagno. Il racconto, che inizialmente aveva messo a fuoco un contesto familiare più variegato, inizia a stringere il suo occhio su questo rapporto in continuo divenire tra padre, figlia e nuova compagna, che attraversa la soglia dell’odio per gettarsi nella repulsione, oltrepassa l’indifferenza prima di finire in una lenta e macchinosa complicità pronta a sfociare in un affetto inaspettato e sincero. Il rapporto di Jing con lo zio, unica persona con la quale ama condividere il suo tempo, è l’unica via di fuga che la pellicola concede alla sua claustrofobia emotiva, gettando la sua macchina da presa nella delicatezza e nella tregua del fiume della provincia cinese dello Hunan – nella quale tutto il lavoro è ambientato –. La distruzione degli argini della moralità all’interno di questa relazione tra lo zio e la nipote porterà a conseguenze drammatiche e destabilizzanti, punto di partenza per una riflessione che si fa porto d’approdo per l’opera prima di Chen Zuho. Il plot è esile ai limiti dell’invisibilità, gli snodi narrativi ridotti al lume del necessario, eppure ciò che prende vita da un’essenza così gracile ha la luminosità d’un bagliore deciso, accecante.
Laureato alla Central Academy of Fine Arts, l’artista – il termine più indicato per intendere il suo approccio agli studi e alla professione – cambia indirizzo gettandosi nel campo dell’immagine digitale. La sua formazione primaria avvenne però al fianco del padre pittore, grazie alla quale sviluppò quella coscienza estetica che Song of Silence trasuda in ogni singola inquadratura. Passo dopo passo, pennellata dopo pennellata, Chen Zuho costruisce un dipinto che ha i crismi dell’assolutezza; dosato e soave, il film inizia il suo percorso di conquista, alternando al silenzio gentile e sensibile che inquadra Jing, il rumore assente della vita di Mei. Le parole gettate in pasto alla storia sono minime, ridotte in un insieme studiato in cui risiede l’indispensabile. Ciò che aleggia attorno al silenzio è un affresco composto dalle tinte forti delle scene madri – come ad esempio l’escursione onirica in cui Jing tenta di rifuggiarsi – al pastello tenue delle sequenze in barca, in cui la ragazza e lo zio condividono, circondati dalla solitudine che li attanaglia, pochi momenti di felicità reale.
Il tutto si è ormai composto, ciò che è stato è rinchiuso nel dipinto che – con fatica – si è tentato qui di riproporre. Song of Silence è un esordio meraviglioso, che pulito dalle ingenuità – ovvie e logiche – proprie di un’opera prima, avrebbe davvero assunto i contorni dell’eccellenza.