Sta per piovere

Non tornerò indietro,

i passi, i fiati, le grida

quando escono dal nostro sangue

si fanno sangue di tutti,

non hanno patrie, Paesi, cortili

dove riposarsi al fresco degli alberi,

ma divengono parole di uomini

e infine uomini.

Viktor Kubati, da Finimenti di frumento

In base a quanto si apprende dai dati Istat, al 1 gennaio 2010 risultavano iscritti all’anagrafe italiana 932.000 minori stranieri, di cui 572.000 nati in Italia. Questi ultimi sono definiti «immigrati di seconda generazione», ad indicare tutti coloro che sono nati sul territorio italiano ma che hanno per genitori degli stranieri, ossia dei non aventi la cittadinanza italiana. Lo Stato rilascia a queste persone nate in Italia la cittadinanza in base allo ius soli, il diritto del suolo, ma solo al raggiungimento dei 18 anni di età. Come debbano essere classificati questi bambini in questo periodo di attesa, nessuno lo sa. Per la legge essi non sono italiani, ma per la logica non sono neanche stranieri: molti di loro non hanno neanche mai visto il Paese d’origine dei propri genitori, eppure la legislazione sembra spingerli sempre più al largo, lontano dal loro luogo di nascita. La questione della politica di accoglienza nei confronti degli stranieri è un argomento spinoso, da sempre oggetto di controversie politiche e elemento di punta di molte campagne elettorali. Haider Rashid ha deciso di farne il perno di Sta per piovere, la sua terza opera filmica. Un tema a lui molto vicino, essendo nato in Italia da padre iracheno e madre italiana.

Said è un ragazzo fiorentino di 26 anni. Nato e cresciuto a Firenze da genitori algerini, vede improvvisamente vacillare il suo futuro quando il datore di lavoro di suo padre si suicida per problemi economici. Il permesso di soggiorno, dunque, non può più esser loro rinnovato, e dal momento che Said, suo fratello e suo padre non hanno ottenuto la cittadinanza italiana per cavilli burocratici, il nucleo familiare si vede costretto ad abbandonare l’Italia sotto l’etichetta di «immigrati irregolari». Il paradosso è evidente: perché due ragazzi che sono nati e cresciuti in un Paese sono costretti ad abbandonarlo come se questo luogo non fosse il loro? Said decide di mobilitare l’attenzione della stampa e delle tv locali per tentare di far comprendere come ogni persona abbia almeno il diritto alla sensazione di appartenenza, diritto che a lui è sempre stato negato.

Nonostante le motivazioni e le intenzioni di carattere sociale, che rendono questo prodotto comunque degno di considerazione, Sta per piovere non cela i suoi difetti strutturali e di produzione. Forse per la poca esperienza alle spalle, forse per la giovane età del regista, fatto sta che non di rado la pellicola scivola in alcune ingenuità (come certi dialoghi e scelte di inquadratura) e rivela una sorta di artigianalità del prodotto, aspetto che risente sicuramente anche della natura di film a low budget. La fotografia e i frequenti primi piani sembrano condurre la pellicola sul sentiero del realismo, ma il profilo resta basso e solo abbozzato, denotando una mancanza di fondo che non può essere sanata dal semplice parlare di temi importanti. Va di certo apprezzata la scelta di un cast artistico e tecnico composto prevalentemente da giovani (molti al di sotto dei 30 anni), come positivamente deve essere valutata la capacità degli interpreti. Ma Sta per piovere si dimostra essere uno di quei film il cui contenuto merita una considerazione diversa dal contenitore: mentre il primo appare corposo e complesso, un preludio a qualcosa di più profondo di là da venire, il secondo mostra invece delle crepe e delle incrinature che fanno storcere il naso e scoraggiare lo spettatore. Volendo, però, guardare il film nella sua totalità, lo si potrebbe allora forse concepire come un trampolino di lancio, un inizio per una riflessione che viene qui solo suggerita ma che non per questo deve cadere nel vuoto. Al di là della resa filmica di un tale prodotto, la pellicola si mostra protesa e speranzosa verso un altro finale, magari più attento ai diritti dell’uomo piuttosto che alle definizioni burocratiche, che deve essere scritto stavolta da chi si trova di fronte allo schermo. Anche se stilisticamente parlando l’opera di Haider Rashid mostra molti punti deboli, essa porta avanti fino alla fine il tentativo di porsi come film di denuncia, finendo con l’essere un invito alla riflessione e un monito a non distogliere lo sguardo

Autore: Lucia Mancini
Pubblicato il 28/12/2014

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