Star Trek Beyond
Il tredicesimo capitolo della saga cinquantennale raggiunge l’equilibrio tanto agognato dai film di Abrams e, finalmente, si torna a respirare aria di Star Trek.
Lo spazio, in Star Trek, non è mai stato un problema.
Velocità curvatura, tunnel spaziali, nebulose e pianeti lontani. In un attimo, l’ignoto è sempre stato a portata di teletrasporto. Il vero problema, semmai, è sempre stato il tempo. Se i miti, le leggende e i grandi ufficiali della Federazione sono immortali, l’autentico dramma di ogni episodio, di ogni film di Star Trek è sempre stato quello di dover fare i conti con la propria mortalità: il desiderio infinito di conoscenza, l’arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima, è sempre spezzato da qualcosa che nemmeno la scienza più progredita, la tecnologia più avanzata, è riuscita a ottenere: l’immortalità. E’ questa caducità, questa debolezza, ad aver reso Star Trek la space-opera più longeva e umanista della Storia. Da Archer a Janeway, passando per Kirk, Picard e Sisko, ogni equipaggio conosce il suo declino, già consapevole che sarà destinato a una sostituzione sempre imminente. Non è nemmeno possibile bloccare il tempo, anzi, si è sempre trattato di generazioni (titolo emblematico anche del settimo film della serie, quello che, guarda caso, segnava il passaggio di consegne dall’equipaggio della serie classica a quello della next generation). E queste generazioni, questi addii che sono eterni ritorni, questi varchi che si aprono come tunnel spaziali, hanno rappresentato l’alfa e l’omega della saga creata cinquant’anni fa da Gene Roddenberry. L’unico modo per sopravvivere al tempo era quello di stare insieme, di fare dell’equipaggio la propria famiglia, il proprio stesso universo. Il cosmo non è mai stato in Star Trek un luogo di solitudine, ma di unione, fratellanza, amicizia, di vita.
Nel 2016 Star Trek ha compiuto i suoi primi cinquant’anni, durante i quali ha conosciuto continue albe e tramonti. Nel 2009, quando ormai sembrava calato il sipario, J.J. Abrams ha rilanciato l’intero franchise, creando quello che è stato recentemente ribattezzato come il Kelvin Universe: una linea parallela con cui potersi svincolare dall’enorme e complessissima continuity dell’universo Trek. Il problema, per Abrams, era quello di rimanere fedele allo spirito ottimista di Roddenberry e, contemporaneamente, riuscire a rinnovare la sua filosofia, rendendo Star Trek un prodotto appetibile anche per chi ne era digiuno. Missione riuscita, nonostante l’evidente scontento dei fan. Del resto Abrams, a metà tra impeto iconoclasta e richieste d’ortodossia, ha infranto l’universo Trek, ha distrutto Vulcano, ha sdoppiato la continuity. Revisionismo? Anatema per i fan più radicali? Certo, eppure Abrams, appassionato com’è di cortocircuiti temporali, di errori nel sistema, non ha resistito alla tentazione di richiamare l’universo precedente, di giocare con i doppi, di dialogare tra le realtà: il risultato è stato Into Darkness, film interessantissimo dal punto di vista del gioco filologico, ma proprio per questo ancorato al passato, al già visto che diventa un remake impazzito e schizofrenico. Il problema, semmai, è che Abrams, ossessionato da questi reboot che sono remake ma anche sequel, ha perso di vista l’idea più elementare ma avvincente di Star Trek: portarci là dove nessun uomo è mai giunto prima. Non c’è l’ignoto nello Star Trek di Abrams ma c’è sempre e comunque l’altra faccia di ciò che conosciamo, la sua ritrattazione ideale (d’altronde non avviene qualcosa di molto simile nell’ultimo Star Wars?). E quindi ecco che Into Darkness si profila come il doppione ideale de L’ira di Khan: una sorta di specchio anamorfico dove addirittura la timeline originale finisce per istruire quella alternativa, tramite il vecchio Spock che consiglia il giovane Spock su come sconfiggere Khan. E guarda caso che è proprio lo storico personaggio interpretato da Leonard Nimoy l’ultimo residuo dello Star Trek originale, il suo resto, la sua sola traccia eccedente. Poi succede qualcosa: Abrams lascia i phaser e preferisce le spade laser, passando a Star Wars. Justin Lin, regista di quattro muscolari capitoli di Fast&Furious, viene chiamato alla regia. Leonard Nimoy, leggendario interprete dello Spock originario, muore.
Così nasce Star Trek Beyond.
L’impressione è che Justin Lin, con una trasparenza impressionante, aderisca all’immaginario più ortodosso della saga, restituendoci a livello visivo uno Star Trek molto più canonico e tradizionale rispetto a quello di Abrams. Allo stesso tempo, dopo il lavoro fatto nei due film precedenti, Beyond è il primo film della nuova serie a potersi lasciare alle spalle tutte le problematiche del Kelvin Universe e della continuity passata. Ne risulta un film molto più libero e spensierato: sembra di assistere a un grande e sofisticato episodio televisivo in cui l’avventura è proiettata in un pianeta lontano, e questo non è affatto un male. Meno ambizioso, meno revisionista, meno epocale rispetto ai film di Abrams, Beyond non deve rimettere nulla a posto, non deve dimostrare, non deve ricreare, si pone solo al servizio del puro piacere della narrazione. Allestisce una storia che, per quanto non originalissima, ha il grande merito di porre l’attenzione sull’equipaggio e sui suoi legami interni. Se da una parte si assiste ancora una volta alla distruzione dell’Enterprise (che, come New York nei film catastrofici, è spesso oggetto delle peggiori devastazioni), a un cattivo interessante purtroppo sacrificato dall’appagante leggerezza dello script, dall’altra vengono fornite le coordinate per un sentimento di appartenenza. L’equipaggio di Star Trek sembra di nuovo una famiglia, come ai tempi della serie classica. Al terzo film finalmente cominciamo a credergli, a empatizzare con loro, ad amare perfino queste nuove versioni dei primi, grandi amori. Questo, ci pare, il più importante merito del tredicesimo film: l’amore e il rispetto per i personaggi. Beyond allarga il cerchio, passa finalmente dal Kirk/Spock centrismo, a tutti gli altri personaggi dell’equipaggio. Leonard “Bones” McCoy ottiene lo spazio che merita, ricreando quegli irresistibili battibecchi con Spock che tanto amavamo nella serie classica. Scotty, molto più libero dal suo predecessore, funge da spalla comica grazie al talento innato di Simon Pegg (anche sceneggiatore del film). E Uhura, Sulu, Checov (su cui pesa un’altra scomparsa, quella tragica di Anton Yelchin), sono perfettamente allineati ai loro predecessori e, allo stesso tempo, sono qualcosa di diverso. E’ proprio quest’ambivalenza, questo essere Star Trek ma essere anche liberi da Star Trek, a rendere così appagante, così divertente Beyond. Finalmente, cessate le legittime preoccupazioni per il nuovo universo, Star Trek torna libero, fresco, divertente, perfino commovente. Lin ha anche il coraggio di imbastire qua e là anche delle strepitose sequenze molto poco trekker rivelando tutta la sua provenienza da un cinema ben più muscolare: dalle piroette che James Kirk fa con la moto a Sabotage dei Beastie Boys utilizzata diegeticamente come “arma” per far collassare un intero sciame di astronavi.
Il dinamismo di Lin esalta, del resto, alcune delle sequenze d’azione più belle dell’intera saga, come l’invasione delle “api” spaziali, la distruzione dell’Enterprise, l’entrata a Yorktown: con rigore geometrico, la sua macchina da presa volteggia, aleggia concentrica intorno ai suoi personaggi, intercetta l’oltre non nell’ignoto ma nell’assenza di gravità, nel countdown che è una lotta con se stessi e con i propri demoni. Lin si perde nelle profondità escheriane di Yorktown, architetture futuribili a cielo aperto.
Certo, ci sono anche delle cadute di stile, come l’insopportabile e brevissima sequenza politically correct sull’omosessualità di Sulu (omaggio non gradito alle battaglie di George Takey, leggendario interprete del primo Sulu), ma sono appena istanti, bazzecole che si dimenticano volentieri.
Il discorso, semmai, è un altro: questo tredicesimo capitolo raggiunge l’equilibrio tanto agognato dai precedenti film di Abrams. Riesce a rimanere in piedi, a volare verso l’ultima frontiera, libero dal peso dell’omaggio, emancipato da un passato tanto massiccio. E, per gioia del paradosso, è proprio quest’emancipazione da Star Trek a rendere Beyond un film profondamente trekker.
Il tempo passa, lasciando le sue tracce anche sul nuovo equipaggio: Kirk, pur giovanissimo, percepisce la gravità del comando, pare continuamente che porti la “memoria” e il fardello di tutto l’universo Trek precedente, che in lui viva il ricordo impossibile dell’altro Kirk. Non è più solo il giovane irresponsabile dell’undicesimo film, è un capitano che sente il peso delle sue responsabilità, che vive tutte le preoccupazioni della vita nello spazio. Come Spock, del resto. Il problema è che sia in scena sia fuori dalla scena il tempo non si può fermare: la morte di Leonard Nimoy diviene allora parte integrante di questo nuovo capitolo, evento extradiegetico che pone problemi, allarmi, cambi di direzione. Mai come ora il dietro le quinte di Star Trek è divenuto condizione stessa della narrazione: Nimoy è il fantasma di Beyond, il suo presente assente…ancora meglio: Nimoy è Star Trek, che sorvola sulle immagini non con effetto-nostalgia (come avveniva in Abrams), ma con potere vivificante: ancora una volta è lì per tracciare la strada e, assieme lui, ci sono gli amici di una vita: tutti quei volti che abbiamo tanto amato, protagonisti “immortali” di una fotografia che spacca il cuore.
Da diversi mesi è stata annunciata una nuova serie televisiva prevista per Gennaio 2017 e un quattordicesimo film. Star Trek, per dirla con le parole del compianto Franco La Polla, è stato lo specchio degli ultimi cinquant’anni di storia americana e continua ancora ad esserlo. Come la Storia, Star Trek vive, soffre, subisce, desidera mancare il tempo ma è impossibilitato a farlo. Eppure è sempre pronto a raggiungere velocità curvatura per arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima. E, per fortuna, alla fine si ritorna sempre a quel magnifico trio: Kirk, Spock e Bones che sono ancora lì ad aspettarci.
L’avventura continua, lontano, oltre le stelle...