Steve Jobs – Dove comincia il futuro
Riflessioni sulla scrittura di Aaron Sorkin
Può apparire semplice a prima vista parlare di Steve Jobs di Danny Boyle, specie se si intende fare un discorso che prende le mosse e si concentra sullo script, ovvero sull’apporto al film di una personalità così straripante quale è Aaron Sorkin: un autore con una poetica solida come pochi altri negli ultimi anni, che sotto certi aspetti tra cinema e televisione ha raccontato sempre la stessa storia. Già da qui però comincia la necessità di precisazioni e la questione si complica, perché non si tratta della stessa storia ma dello stesso mondo.
Eppure neanche così si centra il bersaglio e l’obiettivo di questa riflessione appare sfocato fin dalla partenza perché, innanzitutto, il mondo di Sorkin è anche il nostro mondo e dunque ciò che cambia non è cosa si vede o rappresenta, ma il punto di vista attraverso il quale si ridipinge il reale.
È nella fusione di poetica e mestiere che risiede il segreto dello sceneggiatore di Codice d’onore; è in quella visione del mondo al contempo così eroica e fragile, dove Don Chisciotte stringe la mano ai protagonisti di Tutti gli uomini del presidente e contemporaneamente porge l’altra ad Amleto. E lo fa attraverso una consapevolezza del proprio mestiere quasi unica nel panorama contemporaneo, che lo rende capace di rielaborare il passato da drammaturgo e applicarlo al cinema e alla televisione come se avesse sempre davanti agli occhi Story di McKee.
Una professionalità di così alto profilo può essere un inestimabile valore aggiunto (pensiamo a David Mamet) ma anche un elemento ingestibile se non vengono calibrati al meglio gli equilibri con le altre parti in gioco, ovvero le altre personalità creative coinvolte nel progetto e in primo luogo, in questo caso, il regista. Come David Fincher nel caso di The Social Network, qui Danny Boyle fa un ottimo lavoro, seguendo alla lettera le istruzioni di un script che si comporta come le sceneggiature di ferro della Hollywood Classica, aggiungendovi il suo gran talento nella direzione degli attori e montando il film in maniera sopraffina.
Steve Jobs lavora sui modelli classici, sia per quanto concerne il parco personaggi sia per quanto riguarda la narrazione. Rispetto ai primi si assiste a una sfilata di tutte le figure ricorrenti del racconto classico e prima ancora della fiaba, modificate e aggiornate in base alla storia raccontata. La narrazione in tre atti va a omaggiare e al contempo ridefinire un modello che dalla Poetica di Aristotele arriva fino ai manuali di sceneggiatura cinematografica e televisiva, un protocollo a cui Sorkin dona nuova linfa dimostrando di poter rivoluzionare una storia classica proprio grazie alla tripartizione (opportunamente evidenziate) che questo format impone. Il lavoro che fa sul testo di partenza è - esattamente in linea con la filosofia della Apple - apparentemente di grande naturalezza pur essendo in realtà un’operazione difficilissima.
Prendere una biografia piena zeppa di eventi e trasformarla in un racconto con un inizio un mezzo e una fine – disseminato di insidie, ostacoli, mentori, protagonisti, perdita dell’innocenza e turning point di vario genere - è un lavoro in generale tutt’altro che facile. Farlo con questa precisione è davvero complicato.
Se Il ponte delle spie è una lezione di regia in cui Spielberg riempie di senso ogni soluzione legata ai codici specifici del linguaggio cinematografico, Steve Jobs rappresenta l’equivalente sul piano della sceneggiatura. Apparentemente ripetitivo, solo a prima vista impostato sull’accumulo e sulla sedimentazione, il film dimostra come il posizionamento differente di situazioni ricorsive può dare luogo a una macchina del senso in grado di scavare in profondità nell’animo dei propri personaggi con grandissima naturalezza. Ogni atto è funzionale agli altri: come il primo mette le basi per i due successivi, gli altri si riallacciano ad esso pescando con precisione chirurgica tutti quegli elementi essenziali al discorso di ogni singola porzione di film. Prendiamo il secondo frammento dell’opera, dominato dal confronto con Sculley che fa da baricentro dell’intero film e da catalizzatore di tutte le tracce lasciate sul cammino fino a quel punto; questa sequenza è caratterizzata da un potentissimo climax, ma anche da un ritmo vertiginoso dovuto sia al tempo in costante scadenza sia al montaggio di situazioni temporali differenti dove il passato risponde al presente e viceversa.
Nell’economia di questo discorso, non può che essere l’ultimo atto il momento in cui emerge con la massima potenza il ritratto del protagonista.
Non tanto per via di una rappresentazione più ficcante bensì perché il mosaico prende definitivamente forma nella parte finale dell’opera, andando a completare un discorso che si concentra su un essere umano bigger than life e posa i riflettori su questa figura bifronte oscillando senza sosta dal suo versante professionale a quello intimo. Un processo che sottolinea di volta in volta quanto questi piani siano profondamente intrecciati e saldati su un unico corpo, quello fotogenico e magnetico di Michael Fassbender. Per certi versi lo Steve Jobs di Sorkin/Boyle assomiglia all’Howard Hughes di The Aviator, un’altra figura straripante che come Jobs si pone come una lente di ingrandimento sul mondo, capace di sezionarlo e riformularlo a partire dalla propria entusiasmante e lancinante ossessione.
È lo sguardo verso il futuro che si pone come termine di paragone tra Jobs e i suoi colleghi, un futuro per il quale è disposto a sacrificare chiunque, dagli amici ai familiari e prima di tutto se stesso. Jobs incarna la rivoluzione copernicana del design, l’immediatezza che si serve dell’ipermediazione non prima di averla occultata (per usare il linguaggio di Bolter e Grusin) in cui la superficie assume la stessa importanza del contenuto e la semplicità si fa priorità a scapito della programmazione. Non serve l’open system - ci dice Jobs con tutta la sua arroganza che è ottusa e visionaria al contempo - non serve una macchina che si fa uomo incorporandone tutti gli errori; serve piuttosto un device che si ponga a metà tra l’umano e l’elettronico diventando strumento semplice, affidabile e affascinante.
Aaron Sorkin, con lo strumento del “dietro le quinte” che è una sorta di marchio di fabbrica della sua intera carriera, in fin dei conti non ha fatto altro che raccontare storie di posizioni liminari, attraverso gli uomini e le donne che vivono queste posizioni in prima persona. C’è una fatale somiglianza tra la missione di Steve Jobs e quella della squadra che accompagna il presidente degli Stati Uniti in The West Wing oppure quella dello Studio 60; così come nel ruolo di semplificatore, di mediatore, di traduttore (che la Apple grazie alla figura del suo fondatore e uomo simbolo ha incarnato) c’è la stessa volontà di offrire il miglior prodotto finito possibile - più chiaro, interpretabile, fruibile, usabile, proprio come il Mac - della squadra di giornalisti di The Newsroom.
Così come il lavoro nello scantinato di Steve e Woz, fatto di sudore, tattiche e tentativi sbagliati, è il gemello di quello fatto negli spogliatoi capitanati da Brad Pitt in Moneyball.
E si torna sempre lì, in quel sottilissimo squarcio in cui convivono vita professionale e vita privata, che la grande commedia classica di hawksiana memoria ha saputo rappresentare in maniera cristallina. Uno stile di cui Sorkin si pone come il più illustre tra gli eredi, facendo della propria scrittura un testimone incontrovertibile della cultura da cui proviene, che si parli di politica o di arte, di Dylan o dei Beatles.
“I am tired of being Ringo when I know I was John”.