American Factory

di Steven Bognar Julia Reichert

Il documentario Netflix di Steven Bognar e Julia Reichert, prodotto dai coniugi Obama, racconta una storia incredibile quindi vera: una fabbrica americana acquistata dai cinesi che diventa sinistro modello per il presente.

American Factory di Steven Bognar e Julia Reichert

American Factory racconta una storia incredibile, quindi vera: la vicenda dello stabilimento General Motors di Moraine (Dayton, Ohio) che dopo aver dichiarato fallimento fu acquistato dai cinesi nel 2016. La nuova proprietà ha riaperto la fabbrica e assunto i lavoratori licenziati, circa duemila, facendo ripartire la produzione con il nome di Fuyao Glass America, specializzata in vetro per automobili. Presentato al Sundance 2019, il documentario di Steven Bognar e Julia Reichert è il primo film prodotto dalla Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama, disponibile su Netflix.

I due registi entrano nella fabbrica per tracciare l’intero disegno: le immagini dell’incipit recuperano il cinema delle origini di Michael Moore, sembrano tratte da Roger & Me, dove la General Motors (ancora) chiudeva lo stabilimento di Flint lasciando disoccupata praticamente tutta la popolazione in età da lavoro. Lo stesso accade a Dayton, sotto i colpi della crisi economica, con la GM che procede alla dismissione del sito, lasciandosi dietro il panorama desolato che vediamo all’inizio. Sembra la dinamica classica di una chiusura aziendale, ma... qui c’è il colpo di scena: l’intervento della cinese Fuyao guidata dal presidente Cao Dewang che sceglie di comprare l'impianto. L’azienda viene riaperta. Divisa tra lavoratori americani e cinesi, la produzione riprende e la cinepresa cattura gli addetti orientali con il caporeparto che spiega le differenze tra Usa e Cina: «Qui potete fare battute sul presidente e non succederà nulla», afferma. Intanto i lavoratori americani, rimasti inoccupati con conseguenze devastanti (come la perdita del mutuo), iniziano a tornare al loro posto.

La cronaca di un'integrazione? Tecnicamente sì, visto che americani e cinesi operano insieme all’interno del nuovo marchio. Ma di fatto non è così, almeno non nella sfumatura tradizionale del termine: Bognar e Reichert scavano, osservano, mostrano e intervistano. Ciò che scoprono svela gradualmente la realtà della situazione: se gli operai sono naturalmente contenti di riavere l’impiego, questi tornano però a paga dimezzata e viene chiesta loro una produttività molto più elevata rispetto al passato. Le misure di sicurezza si abbassano: vediamo persone frugare tra i vetri senza occhiali né guanti adeguati. Ma, soprattutto, la dichiarazione d’intenti arriva dal presidente Cao: «Il sindacato avrebbe effetti gravi sulla produzione. Se qui dentro c’è un sindacato io chiudo». La dinamica diviene tristemente chiara: si accetta una riduzione dei diritti pur di mantenere il posto di lavoro, fino all’estromissione dell’organizzazione che quei diritti li reclama. Si arriva, nella seconda parte, a un paradossale referendum sulla presenza in azienda dell’Uaw (United Automobile Workers), il sindacato dell’auto: gli operai sono chiamati a votare, ormai intimiditi, e il no vince nettamente.

Ecco allora emergere la logica del cinese che “salva” la fabbrica americana: è un’esportazione non solo di impresa, ma anche di comportamento sul luogo di lavoro, condotta sociale, insomma di un modo di stare al mondo. Le miniere dei film di Jia Zhangke arrivano sul suolo americano, la guerra del lavoro ci entra in casa, così i cinesi di Dayton cantano una canzone aziendale e ne troviamo perfino uno che riflette sulla “pigrizia” del lavoro occidentale: «otto giorni di pausa al mese, si lavora solo otto ore al giorno, una vita comoda», fa notare. Ed è così, se paragonato ai loro turni di dodici ore con due giorni di riposo mensili: il piano è proprio questo, trascinare gli americani nell'iper-lavoro cinese per aumentare i guadagni dei capi. La riuscita è inevitabile e può essere un sinistro modello per il presente, non per il futuro, così il sogno americano vede il certificato di morte. Se agli Usa sostituiamo l’Europa o l’Italia, poi, il risultato è lo stesso.

Ma il nodo è ancora più complesso. Tra difficoltà per i bassi salari e aumento degli incidenti, vediamo anche un operaio americano stringere una tenera amicizia con un collega cinese: «lo considero mio fratello», dice. Bognar e Reichert sfaccettano la questione mostrando la possibilità del contatto, l’opportunità della vicinanza per lavorare che diventa personale e intima, ipotizzando così una nuova comunità transnazionale in cui uomini agli antipodi operano insieme e diventano amici. Nella loro registrazione amara c'è quindi una traccia umanista.
La proprietà però continua il suo gioco al ribasso: il mantra è migliorare la competitività, gli operai poco produttivi o anziani vengono licenziati. Attraverso un processo di svelamento progressivo, i cineasti ci portano alla vera sostanza di American Factory, titolo antifrastico ma anche “vero”, perché l’azienda resta sul terreno americano anche se i nativi si sentono ormai stranieri. Il film è la storia di un problema aperto. Con sguardo rigoroso, cambi di prospettiva e senza retorica, registra con il documentario ciò che Stéphane Brizé aveva mostrato nella finzione di In guerra: oggi c’è un conflitto del lavoro in atto, una guerra tra poveri tutti contro tutti, dove il capitale è il nemico invisibile. Lì la testa della multinazionale non si vedeva perché collocata all’estero; qui c’è il volto compiacente di Cao Dewang, che chiacchiera amabilmente con quelli a cui taglia i diritti. Ma poco cambia. Nell’ultimo squarcio i registi lo seguono fino in Cina, catturando le sue riflessioni: «mi chiedo se sono un benefattore o un peccatore, ma solo quando sono triste». Non è un villain Cao, è un segno del tempo: come l’automazione incipiente che prevede il taglio di altri posti di lavoro domani. Le macchine sostituiranno gli uomini. Rivediamolo tra vent’anni American Factory: forse sembrerà un horror previsionale.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 25/09/2019
USA 2019
Durata: 115 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria