Lasciali parlare
Passa da Netflix a HBO Max ma non sbaglia un colpo, Soderbergh continua a girare a spron battuto e il suo cinema è tra i migliori del mondo.
C’è una scena in Panama Papers – secondo film Netflix di Steven Soderbergh e sua terzultima opera, per quanto uscita soltanto nel 2019 – che da sola potrebbe servire a descrivere tutto il suo cinema. Siamo all’inizio del film, Gary Oldman e Antonio Banderas stanno spiegando la nascita della valuta guardando negli occhi lo spettatore, rompendo la quarta parete e ripercorrendo il modello della scena della vasca ne La grande scommessa di Adam McKay. Oldman e Banderas (che incarnano rispettivamente i due avvocati panamensi Jürgen Mossack e Ramón Fonseca) camminano e mentre camminano il discorso si fa sempre più complesso tra il concetto di credito e la dematerializzazione del denaro. Poi, il futuro. Quel futuro che è il nostro presente, il panorama impalpabile di criptovalute, «merci di prima necessità, prestiti, azioni, bond, fondi e fondi di fondi… parole invisibili, astratte, molto diverse dalle mucche». E allora i due entrano in una discoteca, alzano il tono di voce, urlano, quasi. Le luci al neon, il vociare, le persone, la musica. Il rumore. Soderbergh – a differenza di McKay, che utilizza il potere erotico dell’immagine (Selena Gomez al tavolo da poker, Margot Robbie seminuda nella vasca) per imprimere nella memoria concetti complessi – non smette mai di informare, di far dialogare suono, quadro e sceneggiatura. Parola e immagine nei suoi film scorrono su linee parallele in cui nessuna delle due prende mai il sopravvento sull’altra. Il suo è un cinema politico, a volte persino militante, pedagogico ma mai moralista, dove narrazione, attivismo ed estetica raggiungono una sintesi perfetta.
Non fa eccezione il suo ultimo Let Them All Talk, film HBO Max che, se sembra parzialmente accantonare l’analisi sociologica dei precedenti Panama Papers e High Flying Bird per abbandonarsi al microcosmo intellettuale di una nave (un non luogo dove una scrittrice affermata fa i conti con le proprie radici, gli amici perduti e traditi, la famiglia, gli amori, le ambizioni e lo spettro della morte), al contempo resta fedele a un’idea di cinema talmente sincera e talmente matura, ragionata e puntigliosa, da potersi mostrare in maniera mite e dimessa, come se non stesse succedendo niente.
Soderbergh, e questo è il grande pregio del suo cinema politico-oggettivo, lascia che i personaggi si mostrino per quello che sono e delega a noi il compito di giudicare. Rifiuto dei barocchismi. Mai un punto macchina sperticato, mai un’angolazione antinaturalistica. Talmente perfetto e consapevole da potersi concedere anche la semplicità e qualche voluta goffaggine (cosa che solo i grandissimi…). Uso del grandangolo, a volte molto accentuato, certo, ma più per restituire gli ambienti nella loro interezza e i personaggi inseriti al loro interno piuttosto che per deformare e inquietare a ogni costo (con Unsane come piacevole eccezione). Niente piani olandesi, banditi i carrelli, pochi piani sequenza, la macchina da presa sempre all’altezza dei personaggi. This is what you get. Meryl Streep libera di fare Meryl Streep e al contempo di farci dimenticare che è Meryl Streep (cosa non facile, quando sei un’icona del cinema). Amori che non sbocciano. Litigi. Amicizie che nascono, altre che muoiono definitivamente. Morti delicate, notturne. Pranzi. Cene. Cuori infranti, ma neanche troppo. La vita che scorre. Praticamente niente, fondamentalmente tutto. Sembra di leggere Flaubert.
Va da sé che di una regia così precisa ed educata a beneficiarne sono soprattutto gli attori. E Let Them All Talk non è solamente la chiave di lettura per un film che indaga il concetto stesso di narrazione e letteratura, che sia il romanzo della propria vita, il fraintendimento dovuto all’uso impreciso delle parole, il dialogo, lo scontro, né una meta-dichiarazione di intenti sul metodo di lavorazione della sceneggiatura (gli attori sono per la maggior parte stati liberi di improvvisare i dialoghi) e del profilmico (a parlare senza imposizioni sono anche le luci naturalistiche del set, a ulteriore prova della rilevanza data dal regista a entrambe le dimensioni). Let Them All Talk è soprattutto un manifesto poetico, il simbolo di un cinema talmente innamorato dei suoi personaggi da non voler essere tirato in causa in nessun tipo di critica o giudizio, così affascinato dalle proprie storie da voler centellinare e intrecciare parole e immagini nella maniera più naturale e fluente possibile. È cinema al tempo presente e del tempo presente.
Se Soderbergh è stato il regista del 2020 (difficilmente la continua trasmissione televisiva di Contagion durante il Lockdown verrà dimenticata) non sarà certo per delle fantomatiche abilità nella divinazione. È il regista del 2020 perché il suo è un cinema talmente informato (inquietante, che questa sua qualità stupisca), pensato, dettagliato, onesto, ricercato e radicato nel reale da poter, sì, risultare predittivo, ma soprattutto – sarò melò – emozionato ed emozionante. E penso che conti ancora. Voglio immaginare e sperare che il cinema possa ripartire – o meglio, continuare – da qui: fateli parlare tutti. Cento anni ancora di Steven Soderbergh.