The Strain
Nelle otto puntate visionate The Strain si dimostra un capolavoro del realismo fantastico, dimostrando le profonde capacità narrative e visionarie di Guillermo Del Toro e Chuck Hogan
Premessa. Fidatevi di The Strain, non fermatevi alle prime due puntate, questa perla migliora con le ore, perché la creatura di Guillermo Del Toro e Chuck Hogan si affida ad una complessa elaborazione di cunicoli narrativi, riferimenti filosofici e sociologici, senza dimenticare commenti politici, che si sviluppano con elegante lentezza nel corso delle puntate. Quindi l’unico consiglio è dargli tempo, far crescere la grossa orchestra di questa opera che naviga sulle acque del realismo fantastico.
E’ una notte come tante nell’ eterna New York quando un aereo civile atterra con a bordo la maggior parte dei viaggiatori misteriosamente deceduti. Nel cargo è depositata una misteriosa, grossa, gotica bara. Chi ha vaghi ricordi della struttura del Dracula di Bram Stoker si ricorderà di come il Conte arrivò a Londra, ovvero su di un brigantino guidato da una ciurma di morti... Le citazioni al capolavoro inglese sono sparse e visibili anche allo spettatore meno acuto, ma il succo di The Strain non sta nel rileggere l’epica vampiresca.
Il telefilm ha quattro protagonisti ed ognuno di essi incarna una figura canonica del mondo fantastico: l’epidemiologo Ephraim (Corey Stoll) è un acuto scienziato, mente illuminata in un’America, rappresentata dalla sua crisi familiare, incapace di accettarlo; Abraham Setrakian (David Bradley) è il mentore, lo stregone, conoscitore delle leggi esoteriche, apparentemente in contrapposizione alle regole matematiche di Ephraim; Vasily Fet (Kevin Durand) è il guerriero senza macchia e senza paura. Vasily sarà anche senza cappa e spada, ma in compenso è un abile cacciatore di topi e come ogni eroe che si rispetti del canone cavalleresco è un catalizzatore di attenzioni femminili. A chiudere il cerchio è (l’anti-)eroe, il messicano Augustin (Miguel Gomez).
In queste otto puntate i binari di Ephraim, Abraham e Vasily s’incontrato in nome di un bene superiore: sconfiggere il male rappresentato dal Master, un signore oscuro, il capo della casta di Strigoi, creature della notte molto simili ai vampiri.
Guillermo del Toro e Hogan allestiscono una New York che ci eravamo dimenticati. Torna a dominare quella fotografia blu e rossastra che la rese celebre negli anni ’80 come bestiale Babele. Ci eravamo scordati di una città così inquietante, confusa, sia architettonicamente che socialmente (si passa dai villoni dell’alta borghesia wasp a quartieri periferici popolati dalle minoranze etniche in preda alla crisi economica). Uno dei punti più interessanti dell’opera sta proprio qui, in una profonda analisi della società multietnica americana (occidentale) odierna. Abraham Setrakian durante la sua giovinezza fu uno dei milioni di ebrei deportati nei campi e fece la conoscenza della pazzia razionale del nazionalsocialismo e quella irrazionale e magica del Padrone. Il Terzo Reich perseguiva lo scopo di un nuovo ordine mondiale, il desiderio di una società piramidale che facesse annichilire la confusione multirazziale dell’Europa novecentesca. Nel discorso del realismo fantastico, quando si tratta di nazismo è comune caricare quest’ultimo di stregoneria (Hellboy, appunto), ed il legame tra il Padrone ed il Reich è sigillato dall’enigmatico Eichorst (Richard Sammel). Eichorst persegue il sogno della società piramidale perfetta, e lo fa innamorandosi prima del delirio hitleriano e successivamente del piano a lunga durata del Padrone. Non è un caso che i vampiri quindi decidano di agire proprio a New York, la caotica per eccellenza, popolata nei suoi bassifondi soprattutto dai messicani. Del Toro e Hogan, con affinate armi dialettiche, puntano il dito verso l’inevitabile sottomissione di una “razza” nei confronti di un’altra: i bianchi si godono gli ultimi frutti dorati di una civiltà in decadenza, i diversi sono i loro schiavi: colf, badanti, lavoratori sottopagati, drogati, ladruncoli, etc. La sicurezza dell’uomo bianco è traballante, il vampiro è la punta della piramide alimentare. E il Padrone ha la strada spianata in un mondo dedito alla paura: più di una volta, nel corso delle puntate, Abraham sintetizza le radici del potere del Master, “This is what they thrive on: fear, panic, divisiveness”.
Politica a parte non manca anche un complesso discorso filosofico sull’amore, in particolare sulla pericolosità dell’attaccamento amoroso. Il vampiro è la vecchia metafora romantica che successivamente Jung psicanalizzò nella concezione del “vampirismo amoroso”, relazionata al “narcisismo patologico”; detta in breve, personalità disturbate svilupperebbero, durante il rapporto amoroso, una concezione narcisistica del proprio Io tale da devastare la relazione, la persona amata, in un percorso di “vampirismo” che potrebbe addirittura concludersi con atti di autolesionismo. Nella nostra contemporaneità si soffre di un “narcisismo patologico” cosmico, spinto all’estremo dalla possibilità di condividere il proprio Io con un click tramite il potere della rete globale: Facebook, selfie, blog, e così via. E’ la malattia mentale per eccellenza del mondo Occidentale. E New York è la capitale del mondo Occidentale. Allora, staccare per qualche giorno la spina alla rete della grande Mela (proprio come avviene durante la trama, per geniale intuizione del Padrone), significa generale una vera e propria sofferenza “vampiresca.”: “fear, panic, divisiveness”.
Qualitativamente parlando la settima e l’ottava puntata sono probabilmente le migliori, in un tripudio di splatter e pura tensione orrorifica, senza mai strafare nel terrore puro o in una sorta di terrorismo psicologico tipico dell’horror moderno. L’opera di Del Toro e Hogan, con il suo realismo fantastico, si avvicina con tutte le armi migliori ai capolavori carpenteriani, rispolverando una dialettica nel genere horror che si era persa dai tempi di Essi vivono. E l’intera ultima puntata visionata, “Creature of the Night”, nel suo set chiuso e claustrofobico, il market della suburbia circondato da strigoi che più che vampiri paiono zombie, è un vero e proprio capolavoro dantesco: i peccatori andranno all’inferno ed i giusti guidati verso la salvezza.