The Strain / Season Finale
Senza perdere di vista i suoi riferimenti letterari (Stoker e King su tutti), The Strain chiude la sua prima stagione in positivo, anche se dal finale era lecito aspettarsi qualcosa di più
Una consegna da fare prima che arrivi l’alba, una cassa di legno colma di terra, un servo adibito allo spostamento, una mostruosità parassitica nascosta nei recessi del suo contenuto. Così è Dracula di Bram Stoker, e dopo di lui Le notti di Salem di Stephen King. Così è, ancora oggi, The Strain. Perché Guillermo Del Toro, nonostante la qualità dei suoi rapporti cinematografici con il genere sia sempre stata altalenante, ha capito una cosa apparentemente semplicissima. Che il classico funziona e continua a funzionare. Ma solo se lo sai usare.
The Strain, che ha completato la sua prima corsa su FX alcuni giorni fa, è infatti una serie dotata di pochissima originalità, ma che è stata capace di sfruttare la tradizione orrorifica della caccia al vampiro all’interno di un racconto televisivo serrato e convincente. Merito anzitutto di Del Toro stesso, che sempre di più dimostra (dopo l’enorme Pacific Rim) di saper padroneggiare gli elementi più basici del racconto, ai quali si affida con forza nella creazione di vicende e personaggi. L’epidemia di vampirismo che affligge New York non dista allora di molto da quella che si insinua nelle strade della Londra ottocentesca di Bram Stoker, o ancora dall’attacco devastante subito dalla Salem’s Lot kinghiana. Anche i personaggi, a partire dai loro nomi, flirtano con i loro corrispettivi storici, in un dialogo che gioca a carte scoperte con lo spettatore e il cui unico fine è il puro, grande, intrattenimento, all’interno del quale non vengono meno riflessioni più generali sulla contemporaneità e l’animo umano. Perché la chiave portante del fare un racconto di genere, letterario,televisivo o cinematografico che sia, è credere nella sua capacità mitopoietica senza passare per discorsi di “elevazione” o “impegno”. Il genere non è qualcosa che va riscattato attraverso l’iniezione di tematiche superiori, ma vive esso stesso, nelle sue potenzialità, tali capacità discorsive. Di ciò gli ideatori Del Toro e Chuck Cogan sono perfettamente consapevoli, e per questo The Strain può benissimo essere un apologo sulla dipendenza di interconnessione tecnologica dell’uomo contemporaneo e al contempo un racconto sanguigno di vendetta e ossessione. O ancora un’ipostatizzazione della natura vampirica e parassitaria dell’amore e assieme il prologo di una grande narrazione post-apocalittica.
Viste nel suo insieme, questa prima stagione di The Strain risulta allora decisamente convincente, anche se dal punto di vista narrativo qualcosa rischia di perdersi di strada. Ora che abbiamo seguito questa prima parte di percorso risulta evidente quale ne fosse l’obiettivo principale (la creazione di un gruppo di eroi e della sua nemesi), tuttavia qualcosa nel tragitto non ha funzionato. Non sono mancati alcuni scivoloni narrativi (specie attorno alla figura della hacker), come preoccupa per gli esiti futuri la faciloneria con cui viene raccontata la gestione dell’epidemia da parte delle autorità. Allo stesso tempo però The Strain ha dimostrato di saper fare quello che in quattro stagioni The Walking Dead non è mai riuscita ad imparare, ovvero raccontare i propri personaggi attraverso le loro azioni. Show, don’t tell è la regola d’oro della televisione americana, assioma che The Strain segue evitando pedissequamente gli eterni psicologismi che affliggono invece la serie di casa AMC. I protagonisti di un racconto di genere non devono di certo essere stupide marionette, ma la loro personalità deve esserci raccontata attraverso le azioni, le interazioni con gli altri, le fobie e paranoie. E non detta, spiegata, illustrata calligraficamente. Complice la tempistica serrata e avvincente che fa da cornice a questa prima stagione, i protagonisti di The Strain sono quanto di più vicino ci sia oggi in televisione ai personaggi che popolano i film di John Carpenter. Escludendo le ovvie vette carismatiche conosciute da tutti, i protagonisti più semplici di Carpenter sono caratteri funzionali ma intelligenti, non banali o stereotipati, ma archetipali.
Questa classicità di racconto si riflette inoltre nell’uso quasi anacronistico del mezzo. Nonostante The Strain sia una serie totalmente orizzontale (e la quasi assenza di filler sia sicuramente uno degli ingredienti del suo successo), questa non cerca mai di farsi cinema. The Strain vuole essere un racconto di televisione moderna, non cerca vezzi artistici o grandi esibizioni tecniche, non vuole farsi film diluito in più puntate. E questo nonostante un’attenzione tecnica spesso notevolissima, a partire dall’entusiasmante direzione della fotografia di certi episodi.
In conclusione, potrà The Strain diventare una grande storia vampiresca a puntate? La prima stagione ci dice che gli elementi ci sono tutti, anche se in futuro occorrerà sicuramente una maggior attenzione ai dettagli e una crescente sfaccettatura dei personaggi. La direzione post-apocalittica inoltre porterà sicuramente la stessa FX ad una sfida sul versante produttivo. Speriamo che autori e rete siano pronti, il lavoro preliminare lascia comunque ben sperare.