Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute

Supercondriaco è l’ultima commedia francese d’assalto, produzione ad alto budget che incarna perfettamente l’industria cinematografica di un paese e le sue strategie per un successo economico nazionale con ambizioni oltre confine: alti valori di produzione, storia semplice e drenata ad un livello di genericità favolistica, attori rassicuranti. Diretta e interpretata da Dany Boon, l’ultima fatica del regista rimescola le carte ma non si allontana dalla formula delle opere precedenti, da Giù al nord a Niente da dichiarare: commedia degli equivoci, innocui scontri culturali di confine, dialoghi brillanti e notevolissimo intuito di mercato. Come sempre, il risultato è un po’ confuso e la comicità è di grana grossa, ma non si può negare a Supercondriaco un coraggio e un eclettismo che raramente si vedono nella commedia blockbuster europea (e italiana in particolare).

La storia è quella di un malato immaginario pronto al ricovero dopo una ricerca su Google e ossessionato dall’igiene, intima e non. Il grottesco Romain Flaubert (Boon) è un quarantenne solo e pieno di fobie, il cui unico amico, Dimitri, è anche suo medico curante (Kad Merad). Dimitri è un borghese immigrato in Francia da un immaginario paese dell’Est, fa il volontario in un centro di accoglienza. L’uomo, esasperato, cerca di liberarsi di Romain aiutandolo a trovarsi una donna. La premessa è quella di una commedia fondata su situazioni grottesche e battute fulminanti. Il pretesto dell’ipocondria fa da facile sponda a situazioni comiche a ripetizione, che sorreggono la prima, e più solida, sezione del film. Buona parte del merito va alle doti attoriali del protagonista: Dany Boon ha un notevole talento per la recitazione brillante e la gestualità espressiva, ha saputo imporsi nel cinema francese al culmine di una gavetta come mimo, comico e attore teatrale. Le sue regie, per quanto piatte e poco ispirate, costituiscono dei solidi involucri nei quali muovere personaggi, macchiette e stereotipi in chiave di commedia leggera, dai toni leggeri ed innocui.

Quando Romain viene invitato dall’amico a collaborare al centro di accoglienza, il film prende una direzione del tutto diversa, al punto che quanto costruito in precedenza pare essere messo da parte; persino il cavallo di battaglia dell’ipocondria passerà in secondo piano. Romain, schifato dal contatto umano con i profughi disperati, perderà conoscenza per lo shock e verrà soccorso dalla figlia di Dimitri che, confondendolo con un leader dei guerriglieri, si innamorerà di lui. La storia d’amore successiva e relativi equivoci rappresentano un gambetto di notevole coraggio, anche se questo eclettismo è al di sopra delle forze di un regista dalla visione e dalle capacità piuttosto modeste. Virando sui binari della commedia sociale e del cinema d’azione più spettacolare, Boon cade nella trappola dell’eccesso di ambizione. Le risate non scompaiono, ma l’improvvisa accelerata delle peripezie e la poco convincente svolta balcanica hanno il sapore dell’innocuo divertissement da parte dell’autore ormai affermato e desideroso di soddisfare le proprie voglie con un enorme budget a disposizione (si parla di una ventina di milioni di euro). C’è davvero troppo, dentro Supercondriaco: battute, comicità slapstick, maschere grottesche, suggestioni americane (Judd Apatow s’intravede qua e là) e una satira sociale antiborghese troppo timida per non essere del tutto inoffensiva.

a risultante di questi vettori tra loro distanti e poco compatibili è un film-pastiche la cui sceneggiatura tende a confondersi con il repertorio del comico stand-up e del suo magico cilindro di battute, barzellette e fisicità. L’attore, regista e sceneggiatore ha una notevole sensibilità per il pubblico e sa catalizzare i temi caldi della società francese contemporanea ampliandone al massimo i confini e creando dell’intrattenimento di facile consumo. Il risultato finale, per quanto divertente e solido dal punto di vista di personaggi e recitazione, soffre degli stessi limiti della tipica commedia da evasione: manca il contesto, manca il coraggio di una comicità davvero corrosiva e, in questo senso, la scelta di situare la parentesi esotica in un paese dell’Est del tutto immaginario è molto eloquente. Manca la società e manca il lavoro: sappiamo che il protagonista lavora come fotografo per un dizionario medico online, ma la sua professione non ha alcun ruolo nell’economia del film. Manca, soprattutto, un’idea chiara del cinema e del film. Al di là dell’approccio verso generi nuovi e l’innegabile coraggio, Supercondriaco è troppo impegnato a celebrare se stesso e il cinema che rappresenta per superarne i limiti intrinseci. In definitiva, la corazzata Boon si salva solo in virtù di una comicità che, per quanto discontinua, non scende mai sotto la soglia di guardia.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 17/08/2014

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