Tatarak (Sweet Rush)
Film intimo e intenso, tra il cinema e la vita
È difficile tracciare la fisionomia di un film come Sweet Rush (Tatarak), riconoscere davvero le (a)simmetrie, le interferenze che si dà. Forse perché è in realtà qualcos’altro, un movimento sotterraneo senza fine, imprendibile. Infinito. Un luogo emotivo che resta segreto, che sia una camera semivuota in cui una donna racconta il suo dolore, l’ immagine ritornante, sempre sul punto di diventare un’altra immagine, di non esserci più, di svanire, di farsi “nero”, o che sia un fiume dentro una primavera e una natura che diventano desiderio di un’altra estate. Difficile non amare Tatarak, che riesce a far male come silenzi che trattengono parole introvabili e, insieme, a scorrere dolce, gentile, come un gesto d’amore essenziale, una carezza, un bacio sulle labbra in un istante che può essere soltanto quello. Difficile restare distanti quando il dispositivo cinema, proprio nel mettersi in scena, nel riprodursi, rinuncia a se stesso e diventa svelamento misterioso, un miracolo, abbracciando in maniera potente, così intensa, la vita, quella che se ne va, quella che resta. La vita, sì, oltre il cinema. E prima. E l’incontro è un momento, una spaccatura improvvisa, un cortocircuito, è il meraviglioso fallimento di quel dispositivo, con i suoi limiti, la sua inadeguatezza, la sua insufficienza. Perché non può bastare, il cinema, anche quando sa farsi straordinariamente invisibile, quando sa scomparire, come dimenticandosi di se stesso, lasciando solo i corpi, la pelle, le emozioni.
Qui, forse, in questo punto che è un abisso, c’è Tatarak, in Concorso a Berlino 2009.
È qui che Andrzej Wajda, fa dell’attrice Krystyna Janda (già in passato da lui diretta) la sua Marta, protagonista di una storia che però è un set, fiction, è il cinema (c’è anche il regista), la storia di una donna in una Polonia che non ha dimenticato quello che il secondo conflitto mondiale le ha strappato via, mentre al presente, da qualche altra parte, in una stanza che diventa inquadratura fissa, Krystyna Janda è Krystyna Janda. Che racconta il durissimo periodo della malattia, fino alla morte, di suo marito Edward Klosinski, direttore della fotografia attivo, come (e più volte con) la Janda, in molte opere del cinema polacco più incisivo e prezioso (ci sono entrambi, ad esempio, nel Wajda di L’uomo di marmo, Senza anestesia, L’uomo di ferro, hanno lavorato insieme per Kieslowski…). Marta vive in un paese di campagna, il ricordo dei suoi due giovani figli morti durante la guerra continua a tormentarla. Ultimamente non si sente molto bene, il marito medico scopre che le resta poco da vivere ma non le dice nulla. Intanto conosce Bogus, un bel ragazzo di vent’anni, barcaiolo, con una fidanzata più istruita di lui che spesso non c’è. Nasce qualcosa che spinge Marta verso il giovane e i due iniziano a frequentarsi.
Partendo un racconto di Jaroslaw Iwaszkiewicz e da uno di Sándor Márai, dal diario Ultimi appunti della Janda, Wajda realizza un film bellissimo che arriva al cuore, senza ricatti, senza mentire. La psicologia di Marta, tutto quello che resta inespresso, trattenuto, così come le sue azioni, le sue parole, gli slanci improvvisi sono un disegno leggerissimo, lieve, sono infine un altro gesto d’amore. E così, nello spazio e nel tempo tra un bosco dove un gioco nell’acqua diventa tragedia e una strada battuta dalla pioggia e dalle macchine, Sweet Rush diventa splendida implosione, in quella faglia improvvisa si libera delle sue ultime protezioni e diventa nostro. Fino alla fine. Fino all’infinito.