Three Times

I “tre tempi” di Three Times sono in realtà molti di più, sempre un cinema che lascia qualcosa, che cerca qualcosa, che muta, che diventa altro nel momento in cui avviene.

Three Times (2005) è il cinema di Hou Hsiao-Hsien. È un ritorno e una sospensione, composizione del tempo. Ed è, insieme, un cinema che fugge, un desiderio, una tensione misteriosa, quasi nascosta. “Il mio cinema – racconta il regista – può sembrare anomalo perché non sta solo dentro il cinema, ma dentro la vita. […] Poiché la creazione che sta dentro la vita esprime elementi della vita. Prestando attenzione, c’è un «sentimento» che passa attraverso il processo del fare cinema, e che viene espresso nel cinema. A un certo punto si percepisce che quel «sentire» è giusto, che qualcosa scorre, fluisce…”1. Cinema e vita che confluiscono, ancora, in Three Times, immagini dell’Uomo e della Donna, fra le pose degli istanti che il cinema sa vedere e la vertigine delle cose, vertigine di quel “sentire” dentro il bisogno vivo del contatto, dentro la distanza e l’impossibilità di trovarsi, con la stessa coppia di attori, Chang Chen e Shu Qi (già splendida presenza imprendibile in Millennium Mambo, del 2001, ragazza divisa fra due uomini), per personaggi che diventano altro, altri personaggi – il ritornare di un lui e di una lei e soprattutto dello spazio fra di loro –, tracce di rifrazioni in un movimento diverso, tutto interno, nelle tre storie del film, ambientate nel 1966 (“Il tempo dell’amore”), nel 1911 (“Il tempo della libertà”) e nel 2005 (“Il tempo della giovinezza”). La prima, la più dolce, la più innocente, inventa l’amore all’improvviso mentre gli occhi di un ragazzo e di una ragazza disegnano le traiettorie del desiderio durante una partita di biliardo, gioco che diventa lenta e sensuale coreografia, immagine di figure, di corpi, che si anima. Non c’è altro, non si conoscono. Lui parte e poi torna, ma lei non c’è più. La cerca fino a incontrarla di nuovo, fino a cercare la sua mano. La seconda storia assume fisionomia e frammenti di cinema muto, fa dei corpi raffinata, delicata e lieve messa in scena, ma la concubina non può avere l’uomo che ama. La ripetizione è qui una privazione, il tempo della libertà è una mancanza. La terza storia, negli anni Zero, a Taipei, sembra provenire da Millennium Mambo, come un pezzo staccato e rimasto in attesa, come un altro ritorno in quelle solitudini, come ancora la negazione di una possibilità, anche la possibilità di una tragedia, di una fine, di una fuga, come un altro vuoto, qui tra Jing, che canta, bellissima, fragile, Jing che ha già una lei, e Zhen, che durante una sua esibizione le gira intorno scattando foto. Zhen che con Jing farà l’amore. Un altro racconto di corpi. Che sembrano svanire, che non possono.

Non è mai facile “uscire” da un film di Hou Hsiao-Hsien. Anche quando non c’è più neanche il nero, anche quando i titoli di coda hanno smesso di scorrere. Non è facile uscire da Three Times, ennesimo capitolo di cinema come tentativo radicale. Di penetrare il mondo, da lontano, di attraversarlo. Domande che diventano immagini, il mondo che, infine, può essere solo il cinema. Perché i “tre tempi” di Three Times sono in realtà molti di più, sempre un cinema che lascia qualcosa, che cerca qualcosa, che muta, che diventa altro nel momento in cui avviene, ipnotico, messa in forma di corpi. Nel tentativo di cogliere un segreto che sta dentro l’arte e la vita, come una ricerca continua, infinita. Come in Millennium Mambo, anche qui cercare gli occhi di Shu Qi, la sua bellezza disarmante, inafferrabile, sospesa eppure violenta, ma di una violenza differente, magnetica. Come cercare negli occhi del cinema di Hou Hsiao-Hsien. E trovare, per un attimo, il suo sguardo.

1. In Donatello Fumarola e Alberto Momo, Atlante sentimentale del cinema per il xxi secolo. Incontri con cinquanta registi contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2013, p. 106.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 03/10/2014

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