Pearl
La guerra, la paura pandemica e il cinema generano nuovi mostri nella conclusione del dittico slasher di Ti West.
Appena il tempo di metabolizzare il ritorno all'horror di Ti West che eccolo di nuovo dietro la macchina da presa con un film che del precedente X è il prequel dichiarato. Pearl, scritto in coppia con la protagonista Mia Goth, non è infatti altro che una origin story, il coming of age di una ragazza che voleva essere una star e scopre invece di essere qualcos'altro.
Messi da parte gli incendiari anni settanta, con la loro libertà sessuale e la ferita ancora aperta della guerra del Vietnam, l'America che questa volta West rimette in scena è quella segnata da un altro grande conflitto. È il 1918 e la Prima Guerra Mondiale, benché agli sgoccioli, continua infatti a mietere vittime Oltreoceano (assieme alla nuova epidemia di influenza spagnola), disgregando famiglie e facendo provare a chi è rimasto a casa un colpevole, inedito senso di libertà.
Ancora una volta, è un contesto che non è semplice contorno quello che West tratteggia per la sua vicenda. Se in X, infatti, lo spirito del tempo era motore stesso della storia, qui lo è altrettanto, anche se in maniera profondamente differente. Perché Pearl – benché la presentazione del personaggio sia speculare a quella della protagonista di X – non è una semplice ragazza desiderosa di libertà e insofferente allo stile di vita dei genitori, ma è anche e soprattutto una persona repressa, disturbata e influenzabile in un mondo pieno di nuovi stimoli e promesse. È proprio qui che il cinema si innesta, acquistando, anche questa volta, un ruolo centrale. Cos'altro è infatti la sala che Pearl frequenta di nascosto (invaghendosi, guarda caso, proprio del proiezionista) se non una fabbrica di sogni e desideri in espansione, capace di insinuarsi, con le sue illusioni, nei più oscuri meandri della psiche?
È tutto filtrato attraverso lo sguardo della sua protagonista, del resto, Pearl. A partire dalla realtà che la circonda. Una fattoria non più vista attraverso la patina seventies di una macchina da presa spesso diegetica, ma trasfigurata e rimessa in scena dalla stessa mente distorta e imbevuta di sogni di celluloide della sua eroina. Un incubo in Technicolor fatto di colori accesi, iridi e numeri musicali, che precorre i tempi e guarda, ancora una volta – tra colossal del periodo (la locandina di Cleopatra con Theda Bara) e incursioni nel porno delle origini – ai classici. Abbandonato il cinema grindhouse del film precedente, questa volta è infatti quello classico hollywoodiano a finire sotto la lente di West, con le consuete suggestioni mimetiche e metalinguistiche che questo comporta. Un viaggio di (de)formazione che abbandona Non aprite quella porta in favore di una versione distorta de Il mago di Oz, con lo spirito, però, dello Psyco di Hitchcock, lasciandoci sin da subito in balia di una serial killer divenuta protagonista assoluta.
È proprio Mia Goth, con la sua interpretazione ferocemente sopra le righe, a fare, questa volta, la differenza. Sul suo volto distorto, paralizzato da sorrisi agghiaccianti o percorso da fremiti durante interminabili monologhi, va infatti in scena la lotta tra illusioni infantili e impulsi omicidi della protagonista. Un percorso di emancipazione portato alle estreme conseguenze che se, da una parte, poco aggiunge alla portata teorica del film precedente dall'altra si fa perfetto proseguo del suo discorso sul cinema e sul genere. L'horror, attraverso lo sguardo sempre più consapevole di West, si conferma così terreno fertile per ogni sorta di reboot del suo stesso immaginario. Un genere da ricalcare e omaggiare senza limiti, senza derive cinefile o nostalgia. Nel proposito tanto sfacciato quanto genuino di far ripartire sempre tutto da zero. Come se quello che vediamo sullo schermo stia avvenendo sempre e comunque per la prima volta.