The Transfiguration
L'esordio di Michael O’Shea rilegge l'archetipo vampiresco del cinema horror rilanciandone la forza politica ed eversiva.
Nel 1978, George A. Romero mette definitivamente la parola fine al cinema gotico, profanando l’ultima grande icona di quella fortunata stagione immortalata dalle produzioni Hammer, Dracula. Il protagonista del suo Martin- Wampyr non è né un gaudente gentiluomo d’altri tempi né un vampiro in senso stretto: è semplicemente un ragazzo confuso ed alienato, un “feticista del sangue” che cerca di colmare il suo vuoto esistenziale armato soltanto di siringa e rasoio. Dieci anni prima dei Ragazzi perduti di Schumacher e degli outsider de Il buio si avvicina della Bigelow, Romero già presagisce la necessità del nuovo cinema horror di lasciarsi alle spalle il bagaglio iconografico e concettuale legato alla figura tradizionale del vampiro. Decide dunque di spogliarlo del suo alone mistico e dei suoi poteri soprannaturali, mostrandolo alla luce del sole come un autistico killer seriale. Nella cinema romeriano non c’è spazio per atmosfere romantiche e raffinate: i succhiasangue moderni sono dei derelitti, costretti a condurre un’esistenza disperata e brutale ai margini della società americana.
Da allora sono passati quarant’anni: Romero ci ha lasciato, i vampiri hollywoodiani sono un’ innocua stirpe di cliché e il film “minore” del padre dei morti viventi rimane ancora oggi uno dei più controversi e sottovalutati della sua carriera. Quell’intuizione anticonformista non è stata però dimenticata; lo testimonia The Transfiguration, esordio alla regia del newyorkese Michael O’Shea, che raccoglie ed amplia l’eredità di Wampyr con un piglio altrettanto cinico e disincantato, un approccio che sicuramente avrebbe fatto piacere al Maestro. Questo perché il film di O’Shea è soprattutto un prodotto politico teso a raccontare l’altra faccia dell’America, quella della disparità economica e del conflitto razziale, quella che nel cinema di genere – vedi il recente Get Out – trova la sua collocazione ideale.
Il protagonista della vicenda è Milo (Eric Ruffin), un apatico adolescente afroamericano, recluso in un esilio personale nei sobborghi malfamati del Queens; qui lo vediamo dissanguare uno sconosciuto all’interno di un bagno pubblico in una cruda sequenza iniziale. Profondamente segnato dal suicidio in casa della madre, il ragazzo convive con il fratello maggiore Lewis (Aaron Clifton Moten), un ex-soldato che preferisce esorcizzare i sui demoni davanti al televisore. I due comunicano a malapena e non hanno relazioni con l’esterno, se non con la polizia e la gang di spacciatori del quartiere, trait d’union tra due mondi apparentemente inconciliabili, quello fuori e dentro la casa. La non-vita di Milo è scandita esclusivamente da un calendario in cui sono cerchiati i giorni predisposti alla caccia. Infatti il giovane palesa un’ammirazione morbosa per i vampiri e i predatori animali in generale: di giorno li studia, annotando su un taccuino tutti i loro comportamenti, mentre di notte li imita, dimostrandosi un esecutore spietato, forte di un’etica cristallina che lo rende zelante nella scelta delle vittime migliori – per lo più uomini bianchi, alcolizzati, tossici, pedofili – e nella ricerca minuziosa delle condizioni ideali.
Milo non ha amici, la maggior parte delle persone, compresa la psichiatra scolastica, lo considerano un freak. Questo marchio sociale, sebbene lo ghettizzi, gli concede però un vantaggio strategico che gli permette di tenere il mondo a distanza e affrontare la sua missione come ha sempre fatto: senza scrupoli, metodicamente da solo,come i suoi idoli. Almeno fino all’incontro con Sophie (Chloe Levine): una ragazzina bianca, anch’essa “difettosa” nel suo autolesionismo, appena trasferitasi nel suo stesso palazzo. Più che un incontro, è un cortocircuito di solitudini quello da cui nasce la tenera amicizia che coinvolge i due protagonisti, imbrattati di malinconia come alcuni dei personaggi dei Peanuts. E’ proprio l’intimità di questo legame, tra maratone di film horror e lunghe passeggiate solitarie, ad intaccare le sicurezze di Milo; costretto per la prima volta a interrogarsi sulla sua vera natura e a confrontarsi con le implicazioni morali dei suoi impulsi omicidi. Ma ormai è troppo tardi, il ragazzo si è spinto troppo oltre per poter tornare indietro.
The Transfiguration è un esordio “scomodo”, costruito ad arte, ricco di spunti di riflessione sulla contemporaneità (bullismo, omofobia, alienazione). Un film metropolitano che ti rimane addosso con i suoi colori cerulei, una recitazione catatonica, una colonna sonora intinta di synth. Tutti elementi che, nonostante le esplicitate ispirazioni cinefile (Lasciami entrare; The Addiction, L’ombra del vampiro), lo iscrivono di diritto in quella schiera di pellicole indipendenti che stanno rivisitando gli archetipi del cinema horror, riscrivendone i canoni con originalità ed intelligenza, dalle streghe agli zombie (tra gli altri The Witch, It Stains The Sands Red, A Ghost Story, I’m Not A Serial Killer).
Nell’era del retrò e del revival, dove anche i vampiri non invecchiano ma diventano vintage, Michael O’Shea riesce ad attualizzare la metafora vampiresca di Romero, riadattandola ai ritmi frammentari della quotidianità. Per farlo attinge alle regole del racconto di formazione, girando un coming of age realistico, quasi documentaristico, sulle difficoltà e gli orrori dell’età di transizione di un teenager che cerca di sopravvivere nel ghetto, modellandosi su qualcosa di invincibile. Il contagio di Milo infatti è un contagio culturale: non ha zanne, è indifferente al sole, il suo orrore quotidiano non attinge ad un passato mitico ma alla pochezza del presente. Un presente nel quale succhiare il sangue dei propri simili – per il protagonista – implica la tacita ricerca di un contatto umano e, allo stesso tempo, incarna un sentimento di rivalsa nei confronti di una comunità – quella degli adulti – che lo ha abbandonato. Una visione matura che ci restituisce, senza svilirla, una generazione di pre-adolescenti e di vampiri finalmente lontani dall’autocompiacimento nostalgico presente in altri prodotti.