Depraved
Fessenden torna al gotico di Shelley e firma un adattamento brillante del suo Frankenstein, rilettura contemporanea che intreccia le trasformazioni del corpo con il taglia e cuci del cinema e dell'immagine contemporanea.
Come si può, nel 2020 (o meglio, nel 2019, anno di distribuzione del Depraved di Larry Fessenden) rivisitare Frankenstein senza adagiarsi sull’oleografia dei vari Whale, Branagh, Corman, o senza parodiare le versioni pulp di Warhol e Morrissey/Margheriti (Il mostro è in tavola… barone Frankenstein), i cross-over di Franco (Dracula contro Frankenstein), i già ironici film di Mel Brooks (Frankenstein Junior) e Barton (Il cervello di Frankenstein), lo sperimentalismo barocco di Ken Russel (Gothic)? Come si può, soprattutto, dopo che i tentativi più recenti di riproporre l’universo narrativo nato dalla mano di Mary Shelley — da I, Frankenstein a Victor — avevano esplicitato le difficoltà di trattamento di un intreccio ormai radicato nella cultura popolare e saturo di rivisitazioni post-moderne, alcune delle quali già avevano ampiamente destrutturato e rielaborato non solo il materiale originale ma la stessa sensazione di déjà-vu derivatane?
Spostando il fuoco dal contenuto alla forma, ma soprattutto mettendo in discussione l’ontologia del suo stesso lavoro di regista, Fessenden non agisce tanto sulla risposta a queste domande quanto sulla domanda stessa, una domanda che, sintetizzata, suona più o meno così: cosa vuol dire fare un film sul mostro di Frankenstein oggi? Sarebbe a dire: cosa vuol dire essere uccisi e riportati in vita, squartati e ricuciti, fatti a pezzi e ri-assemblati dopo l’avvento dei media digitali? E ancora: non è, forse, che il ruolo del regista sia giunto a collimare in tutto e per tutto con quello chirurgico del dottor. Frankenstein, nel tentativo di riportare (e di mantenere) in vita un corpo (quello filmico) che sembra essere morto (con riferimento all’idea novecentesca di cinema come apparato composto da sala-pubblico-proiettore-schermo) attraverso un patchwork di componenti differenti, un lavoro di taglia e cuci?
Nel film vediamo Adam — l’uomo nuovo e al contempo il Primo uomo — che, ribattezzato dopo essere stato ucciso e successivamente resuscitato da un chirurgo, più volte si vede costretto a contemplare i brandelli della sua nuova identità all’interno di un realtà che, dopo averlo riaccolto tra i vivi, è subito pronta a farlo nuovamente a pezzetti, a frammentarlo, a macellarlo, obbligandolo alla contemplazione narcisistica del suo volto e del suo corpo — vivo o morto che sia — attraverso gli smart-phone, gli schermi, condannandolo così a un limbo di matrioske, di immagini dentro immagini che lo privano di una precisa identità, di un preciso posto nel mondo.
Non è un caso che la nascita forzata di Adam (il verbo fatto carne, il verbo fatto immagine) derivi dalla necessità di colmare un’immagine mancante e inconcepibile, il trauma della morte testimoniata in terza persona da Henry, il moderno dottor. Frankenstein che, reduce della seconda guerra del Golfo, soffre di disturbo da stress post-traumatico e, per curarsi, vuole contrapporre alla non-immagine della morte a cui ha fatto da spettatore l’immagine della vita di cui è stato regista, la nascita di Adam.
Adam non è però solo il protagonista del film, ma è anche il film stesso, un film-Frankenstein che introietta la pluralità di forme che hanno obbligato il cinema a disperdersi per poi ricucirsi in una forma nuova, una forma mostro, per alcuni. All’interno di Depraved convergono infatti, oltre ai precedenti film su Frankenstein e la sua creatura (come nel secondo adattamento di Whale, Adam si mostra desideroso di avere una compagna), anche differenti forme d’immagine, dalle elaborazioni grafiche, forme digitali astratte vicine al cinema sinestetico/cibernetico di Jordan Belson o John Whitney, utili per rappresentare lo stato allucinatorio e l’elaborazione delle informazioni del nuovo cervello di Adam, al materiale d’archivio, le riprese dalle telecamere di sorveglianza che custodiscono la memoria traumatica che sveglia la rabbia del mostro e conduce all’inevitabile finale truculento in cui Adam si ribella al suo stesso creatore, chiudendo un cerchio che lascia lo spettatore con un’ultima domanda: chi è il depravato? Forse, esattamente come accade nel finale del film, il creatore di immagini che le mette al mondo e le lascia vagare per la foresta senza alcuna risposta.