Tredici
La serie Netflix di Brian Yorkey è un potente racconto morale a tesi, da cui emerge una fotografia scomoda e preziosa sulle difficoltà adolescenziali troppo spesso ignorate dal mondo adulto.
Il 31 marzo scorso Netflix ha reso disponibili tutti gli episodi di Tredici (o Th1rteen R3asons Why), tratto dal romanzo d’esordio di Jay Asher.
Nonostante il successo letterario, di pubblico e di critica del libro, che ha ottenuto diversi riconoscimenti specifici per la Young Adult Literature, la trasposizione televisiva ha generato hype nei mesi precedenti la programmazione soprattutto per il coinvolgimento come produttrice dell’ex star Disney Selena Gomez, la quale ha raccontato ai media della difficile esperienza di bullismo vissuta da lei e dalla madre, Mandy Teffey.
Ma è davvero il bullismo il tema principale di Tredici ?
Non è una domanda di poco conto, visto che la serie – forse ben al di là delle sue qualità – ha avuto una eco socialmediatica enorme proprio in virtù del delicato argomento trattato. A testimoniare che, comunque la si veda, la serie creata da Brian Yorkey non ha lasciato indifferente l’opinione pubblica, sono le esagerate reazioni, in un senso (una petizione per rendere obbligatoria nelle scuole la visione della serie) e nell’altro (stroncature, anche da parte di noti influencer, figlie più dell’egocentrismo degli estensori che di un’analisi accurata del testo).
Sebbene sia più convenzionale nell’alternanza tra presente e passato, Tredici presenta, analogamente a serie di ben altre ambizioni sperimentali quali Westworld o The OA, un narratore forte: la protagonista, Hannah Baker. Quest’ultima («Ciao, sono Hannah. Hannah Baker […]mettiti comodo, perché sto per raccontarti la storia della mia vita») si inserisce in una tradizione che dal Joe Gillis di Viale del tramonto («Sono certo che vorrete sapere la verità, la pura verità») arriva alla Mary Alice Young di Desperate Housewives («Mi chiamo Mary Alice Young. Oggi, quando leggerete il giornale, forse troverete un articolo sull’insolita giornata che ho avuto la settimana scorsa») passando per il Lester Burnham di American Beauty («Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa è la mia vita. Ho quarantadue anni, fra meno di un anno... sarò morto. Naturalmente io questo ancora non lo so. E in un certo senso sono già morto»).
Un narratore extraterreno e dall’occhio onnisciente che centellina le informazioni ai fini del mantenimento della suspense, ma di cui stavolta lo spettatore è indotto a dubitare, in perfetta sintonia con questa che è l’era della post-verità.
Hannah, in quelle cassette, ha raccontato la verità o la sua verità? Quella architettata post mortem dalla protagonista è una vendetta e insieme un atto di denuncia ma, mentre la vendetta è rivolta diegeticamente ai personaggi del plot, l’atto di denuncia sfonda le maglie della diegesi per investire anche spettatori e società. È fondamentalmente qui che si gioca la partita di Tredici , nel suo essere in grado di smuovere coscienze, di stimolare discussioni. Tutto questo grazie a scelte coraggiose come quella di non arretrare di fronte allo stupro o al suicidio, mostrandoli in tutta la loro crudezza.
Ed è qui che alcuni dei detrattori mostrano di essere stati disattenti: i personaggi che Hannah mette sul banco degli imputati grazie alle sue cassette (come in Guardiani della galassia, audiocassetta e walkman assumono un ruolo di feticcio con cui elaborare un lutto che non è solo quello per un’epoca passata, ma anche quello diegetico per un personaggio scomparso) ci mostrano che l’adolescenza non è mai quella fase della nostra vita che poi, da adulti, col filtro distorcente della nostalgia, ricordiamo fantastica e spensierata.
Tredici , a differenza della maggior parte dei racconti sugli adolescenti scritti da adulti, ci dice senza tanti fronzoli che l’adolescenza può essere un inferno e forse lo è quasi per tutti, solo che poi chi sopravvive spesso se ne dimentica, e dimenticandosene finisce col non cogliere i segnali del malessere, anche quando riveste un ruolo (di genitore, professore, psicologo) che lo richiederebbe.
Intendiamoci, la serie creata da Yorkey non innova linguisticamente, ma probabilmente non lo fa volutamente perché il suo obiettivo è un altro. Alla regia sono state chiamate personalità di tutto rispetto, tra cui Tom McCarthy de Il caso Spotlight, e Gregg Araki, di cui si può dire tutto salvo che sia anodino e che non abbia già dimostrato di saper raccontare l’adolescenza in modi non convenzionali, in film come Doom Generation, Kaboom e Mysterious Skin.
Dunque la serie non merita di essere liquidata come un guilty pleasure qualsiasi, e le violenze esplicite e il suicidio messi in scena non sono mera exploitation, ma elementi che intendono ribaltare quanto comunemente si vede nelle narrazioni sull’adolescenza, abitualmente ricondotta entro binari accomodanti, di apparente affidabilità, che sono poi quelli preferiti dagli adulti (coloro che scrivono e che vedono).
Tornando alla domanda iniziale: è davvero il bullismo il tema della serie? O forse è semplicemente il grimaldello attraverso il quale si scardina un altro aspetto poco piacevole del presente, il bisturi che incide e mostra il nervo scoperto di una società che ama definirsi progressista, ma il cui senso del pudore è rimasto ancorato o, meglio, addirittura regredito a vecchissimi canoni da prerivoluzione sessantottina?
Le recensioni che misurano il gradimento della serie sulla base della verosimiglianza della reazione di Hannah alle tante cattiverie subite sembrano rispecchiare, in tutto e per tutto, i commenti che si leggono sui social a seguito di controversi fatti di cronaca (dai femminicidi alla diffusione di materiale audiovisivo privato) afferenti la sfera sessuale delle persone e, principalmente, quella delle donne. Tredici è, prima di tutto, un racconto morale, a tesi, e di conseguenza può anche scontare qualche passaggio inverosimile a vantaggio di un itinerario che voglia essere emblematico. In secondo luogo, pensandoci bene, è una storia molto più vicina al reale di quanto si dica. I personaggi principali vi sembrano incoerenti? Perché, sorpresa! è l’adolescenza ad essere incoerente, in quanto gli adolescenti sono individui in formazione e la realtà è piena di ragazze come Hannah, che cercano l’approvazione dei coetanei ma possono allo stesso tempo essere infastidite dal superamento di un limite, così come di genitori cui può sfuggire il malessere dei figli, senza che questo meriti di essere necessariamente imputato a indifferenza e scarsa attenzione. Quelli che possono sembrare elementi deboli della narrazione (il montaggio alternato, fotografia e color diverse a seconda che la vicenda sia collocata nel passato o nel presente, personaggi psicologicamente piatti), in realtà sono espedienti studiati (le psicologie tagliate con l’accetta di alcuni character, come Bryce, sembrerebbero corrispondere al concetto di tipaz del cinema sovietico rivoluzionario, la cui valenza era soprattutto pedagogica) perché l’esperienza terribile della protagonista risalti ancora di più.
È solo alla luce di quei tre minuti, in cui alla secchezza quasi da burocrate delle parole di Clay («è entrata nella vasca coi vestiti addosso, si è tagliata i polsi ed è morta dissanguata») corrisponde una descrizione altrettanto cruda del suicidio di Hannah, senza commento sonoro che non sia l’ambiente, che può essere giudicata la serie. Quei tre minuti fortemente criticati che, però, ci dicono più del nostro non voler guardare di quanto prendano atto dell’estremo rigore stilistico con cui la regista della puntata, Jessica Yu, ha diretto un momento così forte.
È questo il tema della serie: la nostra incapacità di discutere della complessità della vita, il nostro ridurre ciascuna persona a una categoria (e poi lamentarci della mancanza di approfondimento psicologico), il nostro liquidare le vicende adolescenziali con un inaccettabile “sono cose di ragazzi”. Il senso di Tredici probabilmente è tutto in quella frase con cui Clay termina il racconto del suicidio fatto al consulente scolastico: «È morta da sola».