Un gatto a Parigi

Una fiaba tra noir ed espressionismo, indirizzata ai più piccoli ma dal notevole e delizioso gusto cinematografico.

Il gatto Dino vive una doppia vita: di giorno in casa con Zoé, una bambina solitaria e orfana di padre, mentre di notte salta sui tetti di Parigi al fianco del ladro Nico. Un “conflitto di interessi” che ben presto genererà situazioni spinose, non di facile risoluzione. Un gatto a Parigi dei registi Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, realizzato nel 2010 e candidato agli Oscar come miglior film d’animazione, è uscito da noi con quattro anni di ritardo, aumentando anche il numero di sale dopo la prima settimana di programmazione. Una fiaba d’altri tempi, in 2D, all’insegna di una spudorata nostalgia per l’uso del disegno a mano e delle sue infinite potenzialità espressive. Con una vocazione poetica che appare più lontana nel tempo di quanto in realtà non sia, Un gatto a Parigi lavora sull’elementarità dello stupore dei più piccoli, un porto cui, si sa, è difficilissimo approdare, non rinunciando però a una riflessione sulla composizione delle immagini, sul loro potere evocativo, sulla possibilità di rendere ogni ambiente e fondale interessante perché visivamente strutturato e non banale, con incursioni taglienti e spiazzanti, anche nella semplicità e nella penuria di mezzi. Tale equilibrio tra linearità e stile spezzato, votato alla ricerca, dà al film la forma di un gioiello in bilico tra chiarore e oscurità, stabilmente sorretto da un’idea di cinema incredibilmente sfaccettata e consapevole.

Un gatto a Parigi si presenta come un noir fanciullesco in cui le ombre minacciose dei concetti più duri – la solitudine, la perdita, gli affetti che vengono meno – sono affrontate con sensibilità espressionista ma anche con un rigenerante gusto favolistico, perfettamente in linea con l’armonia cui s’accennava sopra. La piccola Zoé, muta da quando il padre è venuto a mancare e irretita dalla morte a tal punto da collezionare lucertole, è un personaggio tenerissimo che come tutti gli altri gode di una sua autonomia e uno statuto, sia presa singolarmente che in seno all’evolversi della vicenda. Perché Un gatto a Parigi ha anche il pregio di essere conciso ma non per questo sbrigativo e approssimativo, alternando psicologie intimiste a dinamiche puramente di genere, che ora inquietano ora strappano un sorriso, ambendo a una pienezza che funga per i più piccoli da bagaglio emozionale il più variegato e completo possibile. Capace di conciliare godimento e intrattenimento in un compendio prezioso e decisivo cui anche altri film d’animazione con ben altri mezzi e ambizioni non possono non tendere. Una struttura così salda e controllata, ma anche così fertile in quanto a suggestioni e dettagli deliziosi e raffinati, non può che essere l’ideale base di partenza per improvvisare in modo quasi jazzistico a partire da pilastri solidi e rassicuranti. E’ da leggere in questa direzione l’ultima parte del film, che esplode letteralmente in un caleidoscopio di scoppiettanti invenzioni visive e drammaturgiche. In definitiva poco più di un’ora di pura magia, che evita la bidimensionalità del buonismo ad ogni costo con un passo e un tono che sono randagi e furtivi, regalandosi il fascino smagliante delle grandi occasioni e l’atmosfera impagabile di una Parigi che è, come sempre, un personaggio aggiunto.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 30/12/2014

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