Un ragazzo d'oro
L'ultimo film di Avati è un modesto dramma introspettivo che ha mancato il bersaglio
Davide Bias (Riccardo Scamarcio) è uno scrittore frustrato che, in mancanza di meglio, lavora per un’agenzia pubblicitaria. Ha un passato di disturbi psicologici, una fidanzata (Cristiana Capotondi) che non ha ancora chiuso il rapporto con il suo ex e un rapporto irrisolto con il padre, sceneggiatore di film di serie Z che non ha mai trovato il riconoscimento professionale a cui anelava. Dopo la sua morte, Davide incontra un’editrice (Sharon Stone) che le parla di un libro autobiografico a cui il padre stava lavorando. Deciso a risolvere un rapporto complesso e invalidante, Davide ne prenderà il posto...
Pupi Avati torna a parlare del rapporto tra genitori e figli, dell’ambiguità di un rapporto che si modula tra l’assenza e l’ingombro, tra l’alleanza e la rivalità. Il padre di Davide è, per molti aspetti, l’esatto opposto di quello interpretato da Silvio Orlando ne Il papà di Giovanna. Se là era onnipresente e premuroso, fino a vivere la vita della figlia, ne Un ragazzo d’oro ha luogo un ribaltamento radicale: il padre è l’uomo mediocre, debole, fedifrago e frustrato da sogni e aspirazioni mai realizzate. Il figlio è talentuoso, ma problematico. Dopo avere scoperto e finalmente capito suo padre, abbandona l’odio in favore della comprensione e sceglie di portare sulle spalle il peso di un’alleanza mancata tra padre e figlio, pagandone il prezzo. La storia del film è potente e tocca la corda delicata della paternità e del rapporto intergenerazionale.
Un ragazzo d’oro poteva essere un grande film, ma Pupi Avati non è riuscito ad evitare i consueti difetti della sua ultima fase creativa e, più in generale, di tanto cinema italiano. Il problema principale è di scrittura: tra voci registrate (pallido tentativo di rendere meno fastidiosa la classica voce over), rappresentazioni semplicistiche della questione della malattia mentale e varie altre carenze, la storia procede con inesorabile schematismo verso un finale poco convincente. I personaggi sembrano accostati a forza: le loro interazioni non sono credibili, il loro vagare negli spazi claustrofobici del film tradisce i fili del puparo e gli ingranaggi della macchina. La regia di Avati non nasconde questi limiti, anzi, sottolinea scelte di casting eccessivamente frettolose e capi narrativi recisi senza motivo. Silvia, il personaggio interpretato da Cristiana Capotondi, è quello che tradisce con maggiore evidenza i limiti della sceneggiatura: sentimentalmente ambiguo e confuso, fa la spola tra Davide e il suo ex, ma a questa complessità non è mai accostato un ruolo narrativo o una credibilità di base. Per tutto il film, Silvia resta un oggetto necessario a intervallare e movimentare la vita di Davide, e nulla più.
A questi limiti si aggiunge un commento sonoro invadente oltre il limite del tollerabile, per non parlare del product placement tanto smaccato da produrre un effetto di straniamento. Difetti cronici, certo, ben noti a chi frequenta i lidi di quel cinema italiano indeciso tra vocazione autoriale e commerciale. Ma da un autore come Avati ci si aspetta – o ci si aspettava – qualcosa di più. Manca lo sguardo cinematografico, la capacità di dare vita ad immagini inerti e superare il limite tra narrazione audiovisiva e vero cinema. Sembra di assistere all’ultimo film di Pappi Corsicato, Il volto di un’altra. Purtroppo, questa non è una commedia grottesca sulla società dello spettacolo, ma un dramma introspettivo che ha mancato decisamente il bersaglio, preferendo indugiare su cammei di lusso, cliché narrativi e suggestioni hitchcockiane ben poco calzanti.