Unbroken
Tradizionalissimo biopic che, inscenando un’edificante via crucis, difetta di scrittura pigra e radicale assenza di sguardo cinematografico.
L’ultimo film di Angelina Jolie si aggiunge all’orda di biopic che invadono puntualmente le nostre sale. Unbroken è racconto americano per eccellenza, fiacca edificazione dell’eroe di turno in grado di superare se stesso. Costui risponde al nome di Louis Zamperini, atleta americano di origini italiane, arruolato nell’aeronautica militare durante la seconda guerra mondiale. Dopo esser sopravvissuto a un incidente aereo, vive per quarantasette giorni a bordo di una zattera in mezzo all’oceano, per poi venire catturato e torturato all’interno di un campo di prigionia giapponese.
Angelina Jolie, alla seconda regia, confeziona un’opera ciecamente derivativa, sorretta da logiche palesemente istituzional-celebrative. Fin dal titolo, Unbroken canta le gesta di un eroe impavido, senza mai esser capace di scavare oltre le pieghe virili del soldato/atleta.
Mentre, proprio in questi giorni, il "conservatore" Clint Eastwood inscena il carattere ancipite, crepuscolare e distruttivo dell’eroe, mostrandolo come un disadattato della società (American Sniper), la "progressista" Jolie disegna una figurina ideale, un personaggio carismatico e esemplare fin dalle prime inquadrature, privo di qualsiasi consistenza drammaturgica (e di qualsiasi sfumatura etica).
Nell’intelaiatura scolastica del film, i personaggi appaiono come statuette funzionali, lontane anni luce dall’ambiguità strutturale che meriterebbero. La regista edulcora quella che è, in tutto e per tutto, una parabola cristologica, rimanendo incrostata alla superficie iconografica delle immagini. Ne consegue un manicheismo forzato e d’antan, una logica apertamente binaria retroilluminata da un cristianesimo di stampo martirologico.
In quest’omissione di qualsiasi chiaroscuro, Unbroken vorrebbe essere una sorta di vangelo made in USA, ma finisce per diventarne, inconsapevolmente, la sua stessa parodia. Non c’è alcun’idea di progresso o tensione narrativa nel film, solo il carattere enfatico di un gesto iconico sulla carta, ma posticcio sullo schermo. Il film, d’altronde, non è altro che lo sterile elenco delle sventure provvidenziali di un’atleta invincibile. L’identificazione atleta-soldato, che sorregge l’intero meccanismo narrativo, avvolge didascalicamente l’opera all’interno di una struttura monocorde. Struttura che, a sua volta, tripartisce la storia in blocchi narratologicamente disequilibrati.
Uno dei peccati di Unbroken è aver adottato pigramente la reiterazione come tic strutturale. L’azione del film si trova tutta nei pochi minuti di un flashback. Zamperini è quell’atleta che, quando tutti lo danno per vinto, sorpassa miracolosamente gli avversari, esibendo una forza d’animo che ha qualcosa di miracoloso. Non importa quanto possa patire o rimanere indietro, perché lui alla fine ce la farà. Unbroken, per centotrenta minuti, non fa altro che replicare la struttura di quel flashback, modellandola in contesti eterogenei ma lasciandola praticamente invariata. Che sia in mezzo all’oceano o in un campo di prigionia non fa differenza.
Come un encefalogramma piatto, apatico nei suoi snodi narrativi, Unbroken è pronto al massimo a disegnare geometrie chiuse, cerchi concentrici dove non si fa altro che ribadire pedissequamente lo stesso copione, senza alcuna deviazione narrativa. Rimane l’immagine mitica e emblematica di un’ombra che solleva un’asta di metallo: l’eroe si erge in piedi al cospetto dei fucili giapponesi e degli occhi increduli dei prigionieri americani. Il martirio diviene spettacolo edificante, pasto privilegiato per una platea che risponde con la meraviglia negli occhi. Come in una via crucis in formato spettacolare, l’immagine viene gonfiata dalla colonna sonora, pronta a innalzare un nuovo, sfortunatissimo messia (ci si aspetta quasi che ogni soldato, con lo sguardo trionfo di retorica, si trovi a urlare “O capitano! Mio capitano”).
La messa in scena della Jolie (non) fa il resto: davanti a una struttura narrativa pigra nel modo più lezioso del termine (firmata, tra gli altri, dai Coen in versione alimentare) la regista si limita a illustrare ogni passaggio narrativo, lasciando da parte qualsiasi idea di sguardo cinematografico. La macchina della Jolie registra, non interpreta, avanza con far tentennante, si limita a mostrare corpi, volti, figure che mai riescono a integrarsi (o a dialogare) con l’ambiente circostante. Viene a mancare un punto di vista vero e proprio, perché la macchina da presa non riesce a filtrare quello di Zamperini. Ridotto a immagine idealizzata di sé, a eroe sbiadito, è proprio Zamperini, questo sconosciuto, a mancare al film. Il gesto filmico della Jolie, del resto, naufraga insieme alla scialuppa: davanti all’immensità dell’oceano Unbroken non sa assolutamente come, dove, perché muoversi. Orfani di una dialettica tra individuo e ambiente, gli abissi del film fanno solo da sfondo della parentesi in mare, quasi come se si trattasse di un fondale dipinto staccato da tutto il resto. Anche dal punto di vista narrativo, tutta la sequenza marina procede additivamente, cercando di celare mancanze strutturali che non fa altro che amplificare. Si pensi al bisogno d’innescare, uno dopo l’altro, eventi narrativi iperbolici (tempeste, squali, elicotteri nemici) allo scopo di portare avanti il film. E se, nell’ultimo, sbilanciatissimo atto, potevano emergere situazioni narrative e personaggi più interessanti (su tutti l’Uccello, personaggio così visibilmente scritto nella sua omosessualità latente, da rimanere imprigionato nella sua stessa immagine), Unbroken appiattisce tutto tra frasi-mantra, problemi strutturali e trite e ritrite metafore cristologiche.