Dopo la crime comedy Mazaný Filip (2003), ispirata ad alcuni racconti di Raymond Chandler, e Tobruk (2008), war movie ambientato in Libia durante la Seconda guerra mondiale, il regista ceco Václav Marhoul presenta in concorso a Venezia 76 il suo terzo lungometraggio, The Painted Bird, tratto dall’omonimo romanzo di Jerzy Kosinski (1965). Il film, girato in pellicola e in bianco e nero, racconta la via crucis di un bambino, apparentemente orfano, errante tra le campagne dell’Est Europa durante il secondo conflitto bellico. La narrazione in capitoli è scandita dai nomi delle persone adulte, civili e militari, che si prendono “cura” di lui nel suo lungo viaggio all’inferno: torturato, perseguitato, picchiato, molestato, stuprato, il piccolo protagonista diventa precocemente adulto in reazione alla sequela di brutalità gratuitamente subite. Dopo aver scoperto, alla fine del film, che entrambi i genitori sono stati deportati, deduciamo l’origine ebraica del bambino dal tatuaggio sull’avambraccio del padre, sopravvissuto all’esperienza del Lager. Nascosto da questi per evitare la deportazione, il piccolo protagonista subirà comunque traumi e persecuzioni da quella società che sta a guardare il disfacimento del mondo.
In piena continuità con la riflessione già proposta da Michael Haneke ne Il nastro bianco, l’ambizione di Marhoul è quella di restituire lo spirito del tempo nel quale l’affermazione del regime nazista, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, le persecuzioni che portarono alla Shoah ebbero luogo. Il clima d’intolleranza largamente presente nella società tra le due guerre viene trasposto, in modo fin troppo schematico, nelle efferatezze compiute sul bambino dalle persone che egli incontra sulla sua strada. Anche per questo, la pretesa di distanziarsi dagli stilemi e dai topoi classici degli Holocaust film (bianco e nero a parte) serve all’autore per compiere scientemente un’universalizzazione della storia. La banalizzazione della Shoah, ridotta ad alcune sequenze fuori contesto, ma sempre e comunque ripresa in primo piano (si pensi all’assassinio della donna ebrea e del suo neonato che tentano di fuggire da un treno diretto, probabilmente, verso un campo di sterminio; oppure, ancora, all’assalto dei cosacchi di un villaggio di civili, osservato dagli occhi dei bambini in lacrime), viene accompagnata da una ricerca estetica dell’immagine “perfetta” che non risparmia mai nulla alla visione di ciò che accade.
Con questo non si vuole brandire la spada degli strenui difensori dell’indicibile o dell’irrapresentabile, quanto ribadire la gravità di un’assenza, che aumenta sempre più sequenza dopo sequenza: quella del fuori campo. Tutto ciò non può essere moralmente giustificabile ostentando un presunto realismo, continuamente dissimulato da un dispositivo formale dove nulla sfugge al controllo. Se, da un lato, lo spettatore non viene mai esentato dalla visione di dettagli del tutto irrilevanti delle efferatezze compiute sul bambino (picchiato e bastonato in faccia e sul corpo, sepolto fino al collo e beccato in testa dai merli, lanciato dentro latrine piene di feci, costretto a praticare coiti orali e carnali con uomini e donne, a osservare scene di zoofilia, pestaggi, uccisioni, stupri, torture, molestie), il regista riesce ad allinearsi al punto di vista del protagonista soltanto nei minuti finali. Lo sguardo compiaciuto e distaccato finisce, di conseguenza, per produrre immagini del tutto anestetizzate, incapaci di generare qualsiasi emozione al di fuori della repulsione, dell’insofferenza, del profondo sgomento verso un’operazione cinematograficamente inconcepibile.
Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia. Rivista di studi interdisciplinari.