Dune - Parte due
Una "parte due" che capitalizza al meglio quanto fatto in precedenza e alza tutti i livelli in gioco, dal discorso politico all’escalation drammaturgica, dall’intensità attoriale alla spettacolarità dell’azione e dello scontro frontale. Il più grande kolossal hollywoodiano di questi anni.
Al netto delle gerarchie valoriali, c’è un filo rosso che parte da Shining e arriva a Dune – Parte due, un legame genealogico che attraversa le immagini di Kubrick, Ridley Scott, Christopher Nolan e Denis Villeneuve, attraverso le quali si configura sempre più una rotta alternativa all’ormai plastificato e algoritmico orizzonte del blockbuster contemporaneo. Uscite nel 1980, le immagini di quella lunga volata d’elicottero furono le prime a sintetizzare in forma contemporanea l’epica kolossal dell’overture con l’espressione autoriale servita attraverso il massimo impiego della macchina hollywoodiana. Certo, c’era già stato Apocalypse Now e il suo gigantismo lisergico, ma la strada indicata da Coppola muoveva su un terreno troppo instabile, uno scontro eversivo tra autorialità e capitale non risolto e internamente conflittuale (come dimostrano i suoi successivi percorsi di carriera). Piuttosto, l’apertura musicale di Shining appare oggi come l’inizio ideale di una forma più armonica di authorial blockbuster in grado di permutare la magniloquenza del kolossal in una nuova spettacolarità, anzitutto intenta a mettere in scena sé stessa e la propria potenza di fuoco industriale (in un’ambizione mai sopita a farsi opera-mondo, un desiderio che allontana queste forme cinematografiche da quelle ad esempio spielberghiane, a volte più ludiche e altre più attente al sentimento umanista).
È stato già detto, del resto, che il cinema di Scott, oltre la questione del footage di prova girato da Kubrick in Colorado e impiegato poi dal regista nella prima versione di Blade Runner, nasce per molti sensi dentro quelle immagini in volo, nella seducente grandeur registica che piega a sé le leggi del mercato innescandovi sguardo e ossessioni. E se il magistero di Kubrick domina l’evoluzione ultima delle carriere di Nolan e Villeneuve (rappresentandone un punto di riferimento non necessariamente stilistico, piuttosto industriale e di status), l’operazione Dune non nasconde i diversi omaggi alla storia più ampia del kolossal e blockbuster d’autore, dal cranio rasato del Barone Harkonnen (come il colonnello Kurtz di Brando) al duello truccato nell’arena da parte del na-barone psicotico Feyd-Rautha (eco dell’instabile Commodo di Joaquin Phoenix, ne Il gladiatore), passando per l’eco obbligata di Lawrence d’Arabia e del suo impossibile incontro tra oriente e occidente. Finanche, a voler spingere all’estremo il ragionamento, le adunanze marziali di Riefenstahl e del suo Il trionfo della volontà, eterno ritorno totalitario nell’orgia di potere inscenata dagli Harkonnen.
L’ambizione di Villeneuve è giustamente alta e ben chiara: far rivivere l’epica del kolossal dentro forme di spettacolo pensate, cariche di responsabilità storica nei confronti del mondo che le circonda e comunque forti di un impianto estetico di rara potenza ed efficacia. Se il primo capitolo di Dune poneva le basi del discorso, mediando tra le necessità roboanti della produzione di alto livello e il desiderio autoriale di impostare un passo più meditativo, intimo e attento ai dettagli, questa Parte due capitalizza al meglio quanto fatto in precedenza e alza tutti i livelli in gioco, dal discorso politico all’escalation drammaturgica, dall’intensità attoriale alla spettacolarità dell’azione e dello scontro frontale. I volumi del film – fisici, visivi, sonori – si spalancano e lasciano scorrere momenti di grande cinema, come la prima cavalcata del verme da parte di Paul e il duello finale, l’antigravità dell’imboscata iniziale e i rapidi lampi di quotidianità nel deserto, dove una marcia compiuta con il passo delle sabbie disegna lunghe silhouette d’ombra, mentre la luce intrisa di spezia cala nel tramonto di Arrakis. Villeneuve ama nel profondo la fantascienza, e i codici più adulti del genere innervano nel profondo ognuna di queste sequenze. Ne risulta un cinema puntigliosamente attento nel rigenerare su schermo un intero universo, grazie a una costellazione coerente di immagini spettacolarmente ragionate e realizzate. Il world building sociale, religioso e tecnologico, creato dalla penna di Frank Herbert, sostiene ogni aspetto del racconto filmico, colma l’inquadratura di dettagli, esaltato in tutto ciò che più è in grado, oggi, di risuonare a partire da quella materia narrativa, e dove serve Villeneuve migliora, aggiustando di cesello, e ponendo una seconda volta le impalcature per il film a seguire, l’ultimo dell’attesa trilogia. Non dobbiamo avere paura di dirlo: Dune – Parte due, nato da un capolavoro letterario, è uno dei migliori adattamenti nella storia del cinema.
Coadiuvato da una produzione di primo livello, su cui spicca la fotografia di Greg Fraser (già premio Oscar per il primo film e DOP tra gli altri di Rogue One e The Batman), Villeneuve fa di questo secondo capitolo un concentrato estetico e concettuale particolarmente cupo e violento. Nonostante momentanei attimi di distensione (lontani dall’ironia posticcia di casa Marvel e utili piuttosto ad aumentare le angolazioni da cui scoprire questi personaggi), il film è un tour de force stilistico in grado di esaltare le potenzialità della visione cinematografica (anzitutto destinata alla sala) recuperando al contempo la capacità del grande spettacolo di dire qualcosa di vero sul mondo. Se il primo film era più incentrato sulle suggestioni dettate dalla spezia, metafora della macchina-cinema su cui si innestavano solidi legami familiari piegati dal precipitare degli eventi, in questo secondo episodio domina il peso ineluttabile di un destino che disintegra il topos del white savior, messia incarnato in grado di operare salvezza in un mondo non suo e a rischio di colonizzazione. Merito anche di Timothée Chalamet e Rebecca Ferguson, magnificamente diretti e capaci di incarnare visceralmente la voragine che si spalanca dentro i loro personaggi. Entrambi offrono forse le loro migliori interpretazioni, occhi incandescenti e disperata risoluzione nella voce, nei corpi sempre piegati allo sforzo, sul punto a volte di spezzarsi. A partire da loro, e tutt’attorno nelle vesti beduine dei Fremen, negli spazi desertici di Arrakis fino al bianco e nero dal passo techno dello sbalorditivo, orwelliano, Giedi Primo, monta e si espande un’onda elettrica di fanatismo religioso e calcolo politico, una guerra santa pregna di sangue che sempre più prende forma all’orizzonte. Al pari di Jonathan Glazer e del suo La zona d’interesse – per quanto siano forme cinematografiche agli antipodi – siamo di fronte a un cinema che non solo ingaggia questioni umane e storiche complesse, ma intavola discorsi e criticità che volente o nolente riverberano e si modificano a contatto con l’aria, una volta rilasciati in un presente com’è il nostro, intriso di quotidianità bellica ed escalation militare.
Dei Balcani diceva Winston Churchill che sono una regione condannata a produrre più Storia di quanta ne riescano a consumare, perché i conflitti del passato non si depositano a terra ma restano vibranti nell’aria, suscettibili di riattivazione. La stessa cosa si potrebbe dire dell’universo ruotante attorno ad Arrakis, un precipitato storico del Novecento in cui dittatura, jihad, manipolazione genetica, scontro tra blocchi mondiali e ideologia religiosa collimano in forme instabili, sempre sul punto di deflagrare. Il mondo procede verso l’abisso, la speranza si assottiglia fin quasi a svanire, e quanta differenza permane tra Paul Atreides, messia riluttante, e il suo doppio schizoide, Feyd-Rautha, esempio felice di destino incarnato? Nei margini dei futuri possibili, c’è ancora una strada percorribile che non porti al mare di sangue della guerra sacra? Oggi sembra che la balcanizzazione, di cui tanto si parla per l’invasione in Ucraina, riguardi in realtà buona parte del mondo occidentale, alle prese con un rinvigorimento di forze storiche date per morte, e invece intente ad accelerare e premere sui confini dei sistemi mediali che ci siamo dati per comprendere il mondo. Torna alla mente Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie, uscito in sala nei drammatici giorni estivi del 2014, quando in Palestina si teneva l’ennesima guerra sotto il nome di Operazione Margine di protezione. Quel secondo, nuovo, capitolo del franchise rifletteva infatti in forme inquietanti e inaspettatamente vicine l’incomprensione eterna tra i fronti e la ciclica afflizione determinata dalla guerra. Matt Reeves del resto è l’altro nome da aggiungere alla (ristretta) lista di coloro cui è lecito affidare il destino del blockbuster colto, quello in grado di offrire un’alternativa all’assenza di cinema che dilaga sotto le vesti supereroistiche di latex, mantelli e maschere, l’ironia demenziale e il venir meno di libertà e immaginazione. Dune – Parte due è quindi l’esempio ultimo, e con The Batman forse il più evidente, che in terra hollywoodiana può esistere ancora una forma di spettacolo in grado di inquietare e mesmerizzare assieme, una forma kolossal che risponda allo sguardo autoriale e dal quel contatto esca vivificata, attuale, ancora capace di nutrirsi di quelle eccessive produzioni di Storia che altrimenti non riusciremmo a consumare.