Varichina. La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis

Ovvero quando l'immaginario riscatta dalla memoria la dignità di una vita tutta giocata sopra le righe del coraggio

Varichina. La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis è una co-produzione Apulia Film Commission, realizzata dai registi Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo all’interno del programma Progetto memoria 2015. Il film, presentato in anteprima nazionale al Biografilmfest 2016 e presto nelle sale italiane, porta infatti su di sé la responsabilità di riscattare dall’oblio la parabola di una vita giocata tutta sopra le righe del coraggio individuale. Il film s’ispira all’articolo di Alberto Selvaggi (che vi compare nella parte di se stesso) pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel 2013 col titolo Un busto per il mito diverso. W Lorenzo Varichina, a render giustizia d’una delle figure umane più discusse della città di Bari a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. “Varichina” è il soprannome affibbiato a Lorenzo, sin da bambino, quando di porta in porta vendeva i detersivi fatti in casa dalla madre e che gli è rimasto addosso da adulto, quando eccentrico nell’abbigliamento e nella capigliatura bionda fluente, indigente, si barcamenava come parcheggiatore e inserviente per prostitute. Lorenzo De Santis, nato nel 1938 e scomparso nel 2003, fu l’antesignana icona gay del quartiere popolare barese denominato “Libertà", antinomia della vita che vi brulicava intorno. Rifiutato dalla famiglia, pare visse solo per sé e pieno di sé, arrancando tra il pubblico ludibrio e la rivalsa oscena in piazza, per ricambiare con la stessa moneta la tirannia di una morale ipocrita e violenta. Alla mortificazione Lorenzo ebbe l’ardire di rispondere con l’impensabile ostentazione di una involuzione, quella che da persona si contraffà in personaggio, in icona eccedente il proprio corpo - significante, certo un’arma a doppio taglio, in quello che fu quasi un martirio anarchico d’identità ideale.

Vere sono sopraggiunte le storie. Finta era la vita, perché era l’unico modo di farla da padrona. Cosa aveva in effetti da perdere in questa battaglia di riconoscimento esistenziale, l’omosessuale destinato a rinnegare la propria natura o nella migliore delle ipotesi a soccombere nella dimensione ghettizzante, fantasmatico degli altri “difettati come lui”? Tutto questo interpreta sul grande schermo l’attore Totò Onnis, che presta il volto a questo baluardo di sfogo e sfida di una intera comunità disorientata dalla plateale trasgressione, che pure l’attrae. I co-registi realizzano una docu-fiction, che imposta l’antifrasi nel titolo, per poterla sapientemente ribaltare e tentare di svelare l’autenticità di una vita combattuta a colpi di invettive e scherni. La parte documentaria alterna testimonianze dirette di conoscenti e pochissimi amici, a tratteggiare il profilo di una “persona dolcissima nella sua volgarità”; mentre la componente finzionale abbozza una simbolica, minimale ricostruzione d’epoca di scorci e atmosfere, l’appiglio simulato di memoria collettiva. Il capoluogo barese è inquadrato in un lasso spaziotemporale agli antipodi, che va dalle immagini post belliche di repertorio del LUCE all’ambientazione contemporanea, in cui basta però innestare una semplice reminiscenza scenografica, come la bicicletta-carretto guidato da un ragazzino con la maglietta a righe, per raggiungere l’ammirevole effetto di smarrimento tra la contemporaneità del coro di voci e il passato. Non da ultimo infatti di pregio risulta anche il lavoro sui raccordi sonori. Col dipanarsi della vicenda ci s’avvede come proprio la fiction riesca a scardinare la clandestina intimità di un privato solo paventato: i sentimenti, le lacrime, gli affetti, tutti ricacciati tra le pareti di un animo fragile, restituitoci dalla sincerità dell’interpretazione attoriale in primis e dalla scrittura filmica. Ma l’avrà mai davvero canticchiata Lorenzo, nel piccolo tugurio che abitava, la canzone di Patty Pravo E Dimmi che non vuoi morire (1997), così come lo introduce l’incipit del film? Poco importa, a fronte della realistica esaustività del verso “La cambio io la vita che, non ce la fa a cambiare me”. Ed è questo un retroscena silente, quasi impensabile nel baccano della maschera spettacolarizzata, consacratasi perturbante dello sguardo altrui sul palcoscenico di strada. Eccola allora la sequenza di un Varichina correttamente collocato tra le pareti ufficiali della finzione, un teatro, soprattutto legittimamente distanziato da una quarta parete scudo, che relega gli astanti al fondo del controcampo, come si confà al mito delle sciantose d’avanspettacolo. Come geniale e risolutiva è la ri-connotazione dell’arguto anatema che Varichina soleva lanciare ai suoi detrattori “… tanto tutti qui dovete venire”, che dalla provocatoria allusione sessuale trasla a quella fatalista, epigrafe di consegna dal Varichina - Onnis al Lorenzo reale. Riconciliazione semplice nell’epilogo universale d’uguaglianza di tutte le vite, vere, finte, parallele, sognate che siano, rimesse tanto alla memoria quanto all’immaginario di chi ne serba onesta coscienza.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 13/12/2016

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