Evento di apertura del 54° Festival dei Popoli e presentato in tour in varie città italiane, In viaggio con Cecilia è il fortunato incontro registico delle documentariste pugliesi, Cecilia Mangini e Mariangela Barbanente. Mariangela Barbanente, autrice di focus contemporanei sul substrato sociale pugliese (Sole – 2000; Ferrohotel – 2011) ha il merito di aver riportato dietro la macchina da presa la prima documentarista italiana del dopoguerra, testimone critica del processo di stravolgimento industriale tra gli anni ‘50 e ’70, nonché stretta collaboratrice di Pier Paolo Pasolini, Cecilia Mangini appunto, oggi raggiante ottantasettenne. Fedele al proposito, altrove dichiarato, di voler “condurre il pubblico dove non si ha voglia di andare”, Mariangela Barbanente ritrova in Cecilia Mangini la collega per eccellenza, con la quale nel Luglio 2012 volgere alla volta di Taranto, città infiammata dal sequestro giudiziario degli altiforni dell’Ilva, la più grande acciaieria d’Italia, e dall’arresto del suo proprietario, Emilio Riva, con l’accusa di disastro ambientale colposo. La sequenza introduttiva è metafora delle manifestazioni del tempo che passa, le pale eoliche sull’altopiano pugliese sintetizzano l’evoluzione industriale nella sua avanguardia ecologista, che se da un lato sconfessa in modo inequivocabile l’arretratezza del meridione, dall’altro nulla suggerisce, nella sua entità di strumento nelle mani dell’uomo, sulla correttezza degli usi e loro legalità.
L’arrivo in Puglia è segnato dal passaggio di un antico ponte sul fiume Ofanto, che scorre restando immutato alla vista, per quanto come ammoniva Eraclito, sia impossibile immergersi nella medesima acqua! Pertanto, Cecilia torna ancora a Taranto davanti quei cancelli, un tempo dell’Italsider e ora dell’Ilva, per incontrare gli ex operai di allora e gli operai di oggi, costretti a pensare simultaneamente alla perdita del lavoro e al lavoro che uccide, nella consapevolezza della privazione come risultato di qualsiasi scelta. Mentre i pensionati ripercorrono il mito dell’industrializzazione tarantina, vessillo di alta professionalità, la macchina da presa divaga in lontananza sulla serie di manifesti mortuari che tappezzano le porte d’ingresso dello stabilimento e mentre gli ex sindacalisti inneggiano alle lotte di salvaguardia del lavoro e dell’ambiente promosse a cavallo degli anni ’70 e ’80, un gruppo di lavoratori astanti si disperde, sordi e disinteressati (probabilmente assuefatti e disillusi dalla reiterazione e dalla contraddizione patologica di quei discorsi). Assecondando un montaggio concettuale, che relaziona le immagini del presente con stralci dei precedenti lavori della Mangini (da Brindisi ‘66 e Tommaso, entrambi del ‘65) la stessa Cecilia si rivolge agli operai interpellandoli nel medesimo modo che in passato: “non avete nulla da dire? Nulla da dichiarare?”, il sonoro “No” restituito dalle sequenze del 1965, si espande come un’eco di raccordo in quelle senza risposta di oggi. Oggi come allora, prevale la paura di contestare per evitare ripercussioni sulla continuità del lavoro, perché chi stona fuori dal coro muto è un “sorvegliato speciale”, è isolato, fuori dalla comunità, fuori dalla dignità, che è vita. Senza soluzione di continuità le riprese in bianco e nero degli operai trasportati al lavoro nei bus si alternano a quelle a colori degli operai trasportati al lavoro nei bus. Tutto pare ripetersi uguale, eppure la città straripa di rivendicazioni, cortei di manifestanti avanzano per le strade, dai sitting nelle piazze si alzano le voci contro le istituzioni. Il postulato è che vige una netta distinzione tra la logica etica di un “imprenditore industriale” e quella di un “padrone”, perchè il primo segue una politica economica connessa a quella sociale, mentre il secondo è orientato solo alla convenienza privata. Riva è stato un padrone. E lo Stato? Anche. Ancor prima di Riva, quando l’Ilva era statale e al pari trascurava le norme di sicurezza degli ambienti altamente tossici.
La realtà si mostra come paralisi, nondimeno il peggio ha già fatto il suo corso e la sua consapevolezza accresciutasi. Una installazione di sagome di carta, figure di uomini e bambini, sventolano tra cielo e terra, a simboleggiare la leggerezza dell’esistenza in balia degli uragani, la sua insostenibile sottovalutazione: associazioni di familiari delle vittime si istituiscono come supporto legale, enti di ricerca monitorano i decessi, i registri tumori, i dati di incidenza sulle malformazioni neonatali. Poche immagini sovvengono come lucciole (la ricercatrice tornata dagli Stati Uniti per affrontare con competenza la criticità delle emissioni inquinanti) a rischiarare un sottobosco ancor più ignorato, quello dei pescatori le cui reti raccolgono contaminazione, senza alcun risarcimento né rappresentanza al tavolo delle parti. È proprio la reiterata dissociazione tra la politica (l’esperienza diretta e quotidiana del cittadino nella società) e il contesto politico (le strutture socioeconomiche, i meccanismi dell’azione statale) a costituire il punto di non ritorno nei discorsi di Cecilia durante il tragitto da Taranto a Brindisi: a partire dagli anni ’70 si è fatto in modo di tornare ad un tempo in cui era naturale subire senza dissentire e si è fatto in modo di tornarci proprio nella inavvertibilità del tempo stesso, sì da non esserne turbati. Nel centro brindisino post industriale in gran parte dismesso, Mariangela e Cecilia si scontrano direttamente con l’apatia civica giovanile. Con l’imperscrutabilità del futuro.
Le dichiarazioni disincantate, laconiche e vaghe dei ragazzi, risuonano come il remake fortuito dell’episodio pasoliniano La sequenza del fiore di carta, in cui il giovane Riccetto (Ninetto Davoli) eludeva il richiamo al dovere di informarsi, sapere, volere, agire con cognizione e responsabilità, attraversando svogliato e indifferente le ingiustizie del presente. Il grande fiore di carta tra le mani (così come i cocktail tra le mani nel ritrovo serale) è l’ingannevole ingenuità, l’imperdonabile alibi dell’età, che sconvolge l’ottuagenaria Mangini nel sentirsi replicare: “parlando da giovane, non so dire cosa posso aspettarmi, perché non sono abbastanza informato […] nulla me lo ha impedito, non ne ho avuto voglia!”. Disorientate da tanta schiettezza le registe dibattono sull’irrealtà del sentire generazionale, quando non educato all’espressione civile del dissenso e dall’esercizio del pensiero critico. La citazione di Antonio Gramsci, realisticamente pessimista, ma nel fondo fiduciosa, suggella il finale, decretando come il pensiero “intellettuale organico” e la memoria problematizzata restino risorse preziose mai comprese, ma anche le possibili condizioni per tracciare quel passaggio, auspicato dallo storico cinematografico Pierre Sorlin, dal “Cinema di informazione” al “Cinema di storia”: “[…] una riflessione congiunta tra passato e presente. Un andirivieni in cui l’attualità è provata, completata, corretta dal ricordo di esperienze concluse […]”.
Può rappresentarlo per noi il distintivo “Cinema della realtà”, firmato da Cecilia Mangini e Mariangela Barbanente?