Veloce come il vento
Il racing movie italiano taglia il traguardo vittorioso
L’automobile è tra le invenzioni che maggiormente hanno scolpito il mondo contemporaneo. Da quando il suo prezzo è diventato abbordabile per grandi fasce di popolazione le città hanno iniziato a mutare nell’aspetto, la ragnatela asfaltata si è diramata ovunque e la vita sociale ha modificato ritmi e abitudini. Il mezzo di trasporto è spesso in simbiosi con l’autista, allo stesso modo in cui un cane può rispecchiare le personalità del compagno umano. Per intenderci, per quanto l’elettricità sia il simbolo per eccellenza della Seconda Rivoluzione Industriale nessuno va in giro con una lampadina personalizzata. Il discorso è ben diverso quando si tratta di motori ed è di conseguenza inevitabile che le auto siano diventate veri e propri personaggi della narrativa popolare, si pensi alla DeLorean di Ritorno al futuro o alla Bluesmobile dei Blues Brothers. Esistono poi film in cui sono le protagoniste assolute. Guardando al cinema di oggi il rombo più assordante proviene dai motori di Fast & Furious. Il primo capitolo della saga arrivò nelle nostre sale il 21 settembre 2001. L’Italia rispose l’anno successivo con Velocità massima. Il film di Vicari, però, non trasmetteva adrenalina, i personaggi (sia di carne e ossa che di metallo e pneumatici) possedevano una personalità minima e Valerio Mastandrea usava il clacson per sorpassare nel bel mezzo di una corsa clandestina. La Fandango di Domenico Procacci ci ha impiegato quattordici anni a farsi perdonare ma alla fine ce l’ha fatta. Lo scorso 7 aprile nei cinema è arrivato Veloce come il vento.
Il nuovo racing movie italiano parte da uno spunto reale. Il regista Matteo Rovere è stato infatti folgorato dai racconti del meccanico Antonio Dentini sul pilota Carlo Capone, vecchia gloria del rally italiano e vincitore del Campionato europeo nel lontano 1984. A lui si è ispirato per il personaggio di Loris De Martino, detto Il Ballerino e interpretato da un ottimo Stefano Accorsi. Il cambio di nome palesa fin da subito l’estraneità alla biopic. Quanto ci sia di reale, di romanzato e di inventato ex novo non importa. Come per ogni storia che si rispetti, ma anche per la Storia in generale, la veridicità del racconto è sempre secondaria alla sua morale. In questo caso, Veloce come il vento sa coinvolgere lo spettatore, commuoverlo, parlargli, esaltarlo. Come nel precedente film di Rovere, Gli sfiorati, la vicenda ruota intorno al rapporto conflittuale tra un fratello e una sorella ritrovatisi dopo anni di lontananza. In questo caso è il funerale (e non il matrimonio) del padre a riportare a casa uno dei due. Dopo le iniziali discrepanze, saranno prima il bisogno di denaro e poi la passione a convincere il fratello maggiore ad allenare la giovanissima Giulia (Matilda De Angelis, per la prima volta sul grande schermo). Questi due personaggi sono uno dei maggiori punti di forza del film. Oltre a essere interpretati magnificamente possiedono le psicologie giuste per essere accettati e amati dal pubblico: lui non avrebbe sfigurato in un film di Caligari, i suoi momenti di gloria sono ormai un ricordo desaturato dalla tossicodipendenza; lei è invece tenace ma sfortunata, come la Swank di Million Dollar Baby, e soprattutto conserva la propria femminilità senza scadere nel machismo della Rodriguez dei vari Fast & Furious, dove le donne sono decorazioni per automobili o surrogati maschili. In Veloce come il vento nessuno fa lo spaccone schiacciando l’acceleratore perché il titolo in questione è un film di sport e come tale si avvale di un’etica. Quando Loris domanda cos’è l’Italian Race (ovvero la corsa clandestina all’interno del film e titolo internazionale dello stesso), il meccanico risponde: «Una merda, ecco cos’è». La competizione è celebrata solo nell’ottica dell’agonismo sportivo, quello che prevede un lungo allenamento e che da Rocky in poi è sempre ciò che maggiormente ci emoziona. Gareggiare fuori dai limiti della legalità diventa invece un sacrificio che non merita alcun’esultanza.
Al suo terzo lungometraggio, Rovere sforna la sua opera migliore. Immergendosi in un contesto proletario scopre infatti un’umanità che era totalmente estranea alle protagoniste di Un gioco da ragazze. L’incertezza del domani e l’incapacità di arrendersi della famiglia De Martino catalizzano le simpatie anche del più cinico spettatore. Si tifa per i perdenti perché il solo andare avanti li rende dei campioni. Ce lo aveva insegnato Stallone già nel ’76, ce lo ribadisce quarant’anni dopo Veloce come il vento.