“Comu è sula la strata a st’ura
e cu avia ti partiri parteu
e cu avia ti moriri moreu
e cu avia ti chiangiri chiane”
Enzo e Lorenzo Mancuso, Comu è sula la strata
L’esordio cinematografico della regista teatrale Emma Dante è un film potente e vigoroso, forte di uno sguardo sul mondo che si conferma originale, cosciente, restio alle semplificazioni più ovvie. La maturità espressiva che da sempre caratterizza il lavoro della Dante fin dagli esordi e che ha contribuito a renderla una delle personalità artistiche più apprezzate del suo settore non sembra pagare minimamente lo scotto del salto dietro la macchina da presa. A stupire non poco, piuttosto, è proprio l’uso consapevole e funzionale che la regista siciliana fa del nuovo mezzo espressivo che si ritrova in mano, facendosi carico sulle proprie spalle, come spesso le accade, di alcuni rischi non indifferenti. Via Castellana Bandiera infatti, pur non essendo un film che miri espressamente a una radicalità formale esposta e sottolineata, non si può definire un’opera prima con un approccio registico classico. Le tante scene girate dentro l’abitacolo di un’automobile, cifra estetica peculiare e notevole, sono la riprova di un tradizionalismo stilistico che è aggirato più che respinto polemicamente, come se la Dante sentisse in qualche modo il bisogno di un filtro personale in grado di donarle un tocco del tutto autonomo e non inflazionato.
Ecco allora che i dialoghi con la Clara di Alba Rohrwacher, compagna di vita della protagonista Rosa interpretata proprio dalla Dante, si connotano di un’intimità particolare che lega le due donne, ruvida e trattenuta, di sicuro non calorosa ma in verità nemmeno completamente anaffettiva. Una sospensione a metà strada che rende l’inizio del film non poco misterioso e indecifrabile: Rosa intenta a sottolineare il proprio senso di estraneità dal paesaggio palermitano che le sta intorno e che pure le ha dato i natali e Clara che la osserva di sottecchi, delusa e severa, con i piedi poggiati sul finestrino e un taccuino in mano su cui scarabocchiare nervosamente dei disegni realizzati al volo. Uno slancio di autobiografismo da parte della regista che non può lasciare indifferenti per quant’è astioso, senza però mai, a onor del vero, calcare la mano e degenerare nel collerico. La sua visione di Palermo conserva dopotutto tali caratteristiche per tutto il film, rivelandosi sì critica ma non apertamente sprezzante: i suoi personaggi, a dispetto dell’origine, sguazzano nell’imperfezione, lambiscono la grettezza, ma di rado sconfinano nell’immoralità del gesto e del pensiero (tranne alcuni atteggiamenti ovvi, dettati più dalla necessità dello stereotipo che da altro).
E’ una visione delle cose tutt’altro che affettuosa ma a suo modo lucida, perfino clinica. L’aspetto ossessivo e istintuale che abbiamo imparato a conoscere nel teatro della Dante diviene in Via Castellana Bandiera più trattenuto e incline al contenimento, come a voler ricreare un diverso e necessario equilibrio (non solo) narrativo e di sicuro molto cinematografico. Ciò però nulla toglie alla visceralità che in più di un’occasione colpisce lo spettatore con tutta la forza possibile: si tratta in fin dei conti di un film che vive di geometrie scomposte, in cui la simmetria degli sguardi di due donne che s’incrociano torvi attraverso il finestrino frontale di un’auto serve a manifestare un’inquietudine che, se si potesse, sarebbe urlata a squarciagola ai quattro venti. Una crudezza mai dolce, che si concentra tutta in quella strada intasata in cui Rosa, proprio come la controparte che le sta davanti, si ostina a non voler far passare l’utilitaria guidata dall’anziana albanese Samira e con dentro il genero Saro Calafiore, rimasto da poco vedovo, e la sua famiglia (con tanto di prole al seguito, che pare molto più assennata e pacifista di quanto non lo siano gli adulti). Un microcosmo da post – Cinico Tv ma senza cinismo, semmai con tantissima, introiettata amarezza, condita dalla consapevolezza della scissione di chi vive abitualmente fuori dalla terra natia e nulla o quasi ne vuol più sapere, ancora arrabbiato per le cicatrici derivanti da anni e anni di delusioni. Una strada di Palermo ai piedi di Monte Pellegrino, dove la Dante ha vissuto, che diventa dunque luogo dell’anima oltre che spazio banalmente biografico. Così stretta che richiederebbe un senso unico ma nella quale di fatto possono passare contemporaneamente due auto senza contravvenire al codice della strada: difficile, anche sforzando l’immaginazione, trovare una metafora più impietosa in grado di raffigurare meglio la Sicilia e le sue contraddizioni da un punto di vista simbolico, nonché l’anima profonda di una terra abituata da sempre a gestire al suo interno elementi compresenti e spesso in aperto e campale conflitto. Una regione in cui gattopardescamente tutto cambia per non cambiare affatto e, come recita una battuta del film, allo stesso tempo “tutti hanno ragione e tutti hanno torto”.
Emma Dante parte proprio dalla stasi, che qui paradossalmente si erge a motore narrativo privilegiato: una via ostruita per ore e ore si fa allora indagine antropologica su un microcosmo coi nervi a pezzi, periferia extra-cittadina più che provinciale che ben si sposa con dei ritratti femminili così belli e convincenti, così antipatici, fragili, ostinati e umani. Via Castellana Bandiera è un film corale che non rinuncia all’osservazione traversale, a soffermarsi per larghi tratti e con inquadrature fisse sulla strada ripresa in campo lungo (oltre che vuoto) ma anche sul paesaggio, sugli scorci, sulle cose, sulle case. Un esordio eccezionale e sorprendente, la prima gemma del concorso di Venezia 70.