L’adattamento di un testo di uno dei più grandi scrittori contemporanei qual è Cormac McCarthy rappresenta una sfida difficile e delicata per chiunque. Perché McCarthy è già cinema, con la sua prosa scandita e dettagliatissima, colma di pause che già sono montaggio e di descrizioni capillari che da sole sarebbero in grado di saturare alla perfezione qualsiasi immagine. Lo capirono bene i fratelli Coen, che infatti di Non è un paese per vecchi non toccarono praticamente nulla, limitandosi a tradurre in immagini la potenza nitida e concentrata delle pagine dello scrittore di Pasadena. Il terzo romanzo di McCarthy, Child of God, è nello specifico uno dei suoi lavori più crudi e malsani, un libro pieno di mostruosità disumana, di violenza cieca e grottesca, di momenti estremamente respingenti e perversi. Un volume scomodo, che a differenza di altri romanzi dell’autore della Trilogia della frontiera non può essere approcciato come un vademecum del quale seguire pedissequamente l’andatura. Perché McCarthy in Figlio di Dio si spinge oltre ed eccede, dando vita a una prosa di potenza devastante che non risparmia nulla, che ordisce un avvolgente campionario di psicopatia in grado di mettere a dura prova anche la resistenza del lettore più scafato e imperturbabile. Tocca fermarsi un attimo prima di scadere nell’accanimento di grana grossa, glissare e mantenere al contempo la notevole potenza delle situazioni. Ed è quello che il film riesce a fare benissimo.
Quindi, onore al merito a James Franco per aver lottato per accaparrarsene i diritti e portarlo sullo schermo. Scelta coraggiosa e radicale, in linea col percorso artistico unico e ammirevole di questo intellettuale insaziabile che alla siesta da divetto hollywoodiano preferisce una sequenza martellante di film impegnati e difficili uno dietro l’altro, di festival in festival e senza un apparente attimo di respiro. Dopo l’As I Lay Dying visto allo scorso Festival di Berlino, l’attore e artista a tutto tondo si cimenta guarda caso nel più feroce e faulkneriano dei capolavori mccarthiani, una scelta all’insegna della più lampante continuità. Ed è un vero piacere constatare nella mano registica di Franco una tendenza spasmodica all’ossessività, che oscilla dall’over-acting del geniale protagonista Scott Haze nei panni del matto e maniaco Lester Ballard a una sorta di over-reacting in cui lo sguardo del regista sembra reagire continuamente agli stimoli derivanti da ciò che sta davanti la macchina da presa: follia chiama follia, eccesso chiama eccesso, in un percorso continuamente dialettico e sempre più inebriante di istinti e pulsioni disgraziate del bassoventre. Un sentore confermato da un piano di regia che non di rado fa sue inquadrature strettissime e claustrofobiche, ravvicinate fino a scantonare nello strabismo sgranato, un vero e proprio incubo di proporzioni infernali. James Franco gestisce l’one-man show del suo incredibile attore con intelligenza e ne fa risaltare ogni particolare: lo sguardo alla Palla di Lardo, i tic luciferini, gli occhi fuori dalle orbite. Nessuno sconto, nessuna pietas, col risultato che Child of God ti fa sentire sporco, intriso di vergogna, a disagio sulla poltrona.
Franco ama osservare Lester attraverso delle sbarre (la prigione, lo steccato) e lo fa spesso soprattutto nella prima parte, la più sobria e scarna, quella senza la necrofilia, il sangue versato come se non ci fosse un domani, il travestitismo a metà tra la pena commiserevole e il ribrezzo di chi guarda, i corpi morti di donna che la fisicità goffa e claudicante di Lester fatica a far salire su per un scala. Ne sottolinea l’estraneità dal mondo civilizzato, il suo essere ai margini da qualsiasi forma di aggregazione umana propriamente detta. Tra tenerezza impossibile e tragicità luttuosa, tra Julien Donkey-Boy e una versione martoriata e brutalizzata di Lars e una ragazza tutta sua. In un incendio bruciano gli orsacchiotti del protagonista, ma rimane il pupazzo tigre: va via l’infanzia e l’idillio, persiste la ferina aggressività di un mondo post-apocalittico, nel quale Lester è elevato a rappresentante-tipo di un qualsiasi umano rimasto a popolare il pianeta terra dopo la fine di tutto in un altro grande romanzo di McCarthy adattato al cinema da John Hillcoat, The Road.
Film tripartito in tre atti, Child of God è il racconto monodimensionale e asfissiante di un freak demoniaco che uccide perché conscio del fatto che nessuna forma di vitalità può più riguardarlo o tantomeno intrattenersi con lui, dal punto di vista sessuale e non: un vomitevole parto di una natura che lo genera, lo ringhiotte, lo risputa fuori da sé. La sua affezione per il corpo femminile defunto diventa strumento attraverso cui egli può costruire e modellare a suo ghignante piacimento una realtà che non è in grado per ovvie ragioni di opporgli resistenza, in maniera feroce eppure a suo modo candida e fanciullesca. La poesia lacerante del film e l’eco doloroso della sua portata, in fondo, risiedono proprio nella normalità incantata e ed entusiastica con cui Lester realizza le sue efferatezze, così in contrasto con la portata disgustosa delle sue azioni.
Un ossimoro esplosivo, che fa la fortuna di una trasposizione notevole. Un’opera che non sfigurerebbe senza ombra di dubbio se dovesse trovare un posto nei piani alti del palmarès di Venezia 70.