Tomorrowland - Il mondo di domani
Kolossal utopico di derivazione spielberghiana, dove il talento visivo di Brad Bird viene soffocato da uno script disomogeneo e sbrigativo.
1955. All’interno del parco-divertimenti Disneyland sorgeva Tomorrowland, area avveniristica della casa di Topolino fortemente voluta da Walt Disney in persona. Questa terra del domani nasceva in un’America proiettata con fiducia e ottimismo verso l’avvenire, con gli occhi rivolti ai misteri del cosmo, alle meraviglie della tecnologia e del progresso, alle infinite conquiste della conoscenza. Quel futuro appariva allora come il migliore dei mondi possibili, la meta auspicabile pronta a glorificare la tenacia e la fantasia degli uomini. Questa visione tanto radiosa quanto ingenua, sarebbe stata arpionata dalla guerra fredda, dal Vietnam e dai suoi riflessi di sangue, da un mondo più interessato ad arrendersi agli orrori quotidiani piuttosto che a ribaltarli. L’immaginario, che precede sempre il reale, aveva capovolto le utopie fantascientifiche trasformandole in distopie letterarie, dove il futuro somigliava più a un incubo tecnocratico che a un Eden tecnologico.
Parla esattamente di questo Tomorrowland, il nuovo, segretissimo progetto live-action della Disney. Opera luminosa, irradiata dal tocco leggero e riconoscibilissimo di Brad Bird, autore capace di passare con estrema disinvoltura dall’animazione pixar all’elasticità live-action dell’ultimo Mission: Impossible.
Con Tomorrowland, il regista prosegue il suo cammino verso un cinema alla costante ricerca di un sense of wonder perduto. In totale controtendenza, risponde alle distopie di tanta fantascienza contemporanea con un’utopia capace di credere ancora nella forza della ragione, nella speranza di un futuro migliore, nel gesto del singolo in grado di riscattare l’intera specie.
La sua Tomorrowland è l’altrove trasognato, il futuristico over the rainbow che confida nell’energia dei sogni e nel potere della mente. Questo platonico regno della sapienza apre le porte a quelle singole eccellenze che potrebbero fare del mondo un luogo migliore. La protagonista è Casey, ragazza prodigio dalla volontà di ferro, reclutata da una bimba-robot tramite una semplice spilletta con cui accedere a Tomorrowland. Si troverà all’interno di un’autentica missione impossibile in cui la posta in gioco si rileverà altissima: salvare la Terra e il genere umano. Per farlo avrà bisogno di Frank, ex bimbo prodigio che presentò un jetpack all’Esposizione Universale di New York del 1964.
Il materiale di partenza è abbondante e ambiziosissimo: Bird, con un budget da duecento milioni di dollari sulle spalle, insegue pedissequamente il format classico di film per famiglie. I personaggi sono entità complementari ridotte a funzioni narrative, figure dotate di ghost stories e conflitti interiori: Casey è la giovane ottimista che non si arrende mai, Frank il vecchio misantropo che non ha più fiducia nel futuro. Siamo d’altronde all’interno del romanzo di formazione, scandito in tutte le sue evoluzioni narratologiche: iniziazione, crescita, delusione e riscatto, non prive di un vago sapore messianico.
Tomorrowland mischia toni e umori disomogenei, alternando continui, fastidiosi battibecchi tra i due protagonisti a inseguimenti, sparatorie e scazzottate, con cattivi talmente stilizzati che sembrano essere l’ennesima parodia dell’agente Smith di Matrix.
Quello che viene a mancare è l’equilibrio interno, l’identità stessa di un progetto troppo indeciso sul tono da assumere. Il problema è anzitutto di sceneggiatura, nella radicale incapacità di scegliere una strada e percorrerla fino in fondo. Il risultato, al contrario, è un enorme pastiche che passa da varchi dimensionali a catastrofi naturali, da infatuazioni uomo-robot a slittamenti spazio-temporali.
D’altronde lo script è firmato dal lostiano Damon Lindelof, l’uomo che ha portato a estrema saturazione viaggi temporali e realtà parallele, finendo per normalizzare e oggettivare l’ignoto. Come avviene in quasi tutti i suoi script, Lindelof costruisce una prima parte letteralmente sorprendente che viene gradualmente disattesa, piegata, intorpidita da un secondo tempo completamente privo di immaginazione. Non fa eccezione Tomorrowland, manifesto perfetto del Lindelof-pensiero: l’incipit – ma più in generale la prima ora - riesce a restituire le fascinazioni spielberghiane di un cinema che non esiste più. Il mistero, le meraviglia, l’attrazione per lo sconosciuto, la capacità di sorprendersi per un’idea, ci portano a un ennesimo Super8 fantascientifico. Una bolla anni ottanta che, gradualmente, rivela tutta la sua imbalsamazione. D’altronde il fenomeno Super8 pare aver ormai costruito un sottogenere a parte, quello che, fuori tempo massimo, rilancia la fantascienza naïf anni ’80, situandosi a metà strada tra l’atto d’amore nostalgico e la furbizia estrema di una trovata produttiva.
Tra inseguimenti interminabili, trovate eccentriche (la Tour Eiffel che funge da antenna) e inopportuni momenti da screwball comedy, il film si sgretola definitivamente all’arrivo su Tomorrowland. Improvvisamente viene a mancare tutta la magia della prima parte, finendo per arrancare tra spiegoni altisonanti e chiose retoriche. E’ come se lo script di Lindelof avesse fretta di arrivare a compimento, di rintracciare un cattivo, di individuare una catastrofe imminente che obblighi tutti, ma proprio tutti, all’ennesimo countdown del cinema americano: la sensazione di trovarsi di fronte all’episodio di una serie-tv che, per rientrare nei tempi, deve assolutamente tirare i fili del discorso, accompagna lo spettatore per tutta la seconda parte del film.
Ciò che risulta assente è infatti Tomorrowland stessa: all’improvviso il luogo perde tutto il suo fascino, riducendosi a suggestivo set di una serie di scontri fisici. E lo spettatore, che vorrebbe conoscere le dinamiche e le leggi di quel mondo, assiste allo sgretolarsi stesso della narrazione. Sbrigativo nella sua brama di concludere a ogni costo, Tomorrowland ci regala un happy end posticcio con George Clooney – palesemente fuori parte – che si fa cantore ottimista di un futuro radioso.
Certo, rimane il talento visivo di Brad Bird, le vertiginose acrobazie della sua macchina da presa, la formidabile elasticità del movimento, la tensione verso soggetti che perdono carne e inseguono la virtualità dell’animazione – aspetto molto più evidente e formidabile in M:I Protocollo Fantasma, dove Cruise si prestava perfettamente a farsi corpo elastico e animato. Ma un regista come Bird avrebbe bisogno di script più liberi e aperti, in grado di fornire le coordinate per un cinema senza gravità. E di gravità, in questo film mancato, ce n’è perfino troppa.