Andrea Segre si è sempre mosso in un territorio liminale, instabile ed affascinante, continuamente in bilico tra finzione e documentario. Ma è ormai chiaro come questa semplice bipartizione risulti anacronistica se non fuorviante: del resto in Italia la zona privilegiata del cinema, del tempo e della riflessione sull’immagine è proprio il cosiddetto documentario (mentre il film di finzione è in gran parte inquinato dal linguaggio televisivo). Proprio per questo dispiace vedere come La prima neve rappresenti un passo indietro per Andrea Segre, che dopo l’ottimo Io sono Li ritorna a una dimensione fisica e narrativa più timida e convenzionale, dove la tendenza dimostrativa prende subito il sopravvento su quella evocativa: non più la struttura carsica, fluida ed elegante di Io sono Li ma quella essenzialmente fossilizzata, geometrica e scolastica, visibilmente lontana dalle corde di Segre. L’immagine liquida viene sostituita dalla solidità di corpi, case e orsi. Lo scorrere delle cose viene soppiantato dal loro ordine, da una struttura razionale imposta e artefatta.
Se, ancora, Io sono Li faceva della rarefazione, della mancanza e del vuoto un sentimento evocativo, La prima neve sente l’obbligo di colmare ogni assenza, di rimettere tutti i pezzi in ordine, secondo un assetto puramente geometrico. Il fascino del film precedente si trovava infatti tutto in quella sua sospensione, in quell’apnea che tanto riecheggiava bagliori orientali. In La prima neve, ambientato tra le splendide montagne dell’Alto Adige, ciò che manca è prima di tutto il sentimento del tempo e dello spazio, un peccato grave per un’opera immersa nella natura. Per sentimento del tempo ci si riferisce alla sua percezione in termini di durata e cadenza, a un’inquadratura troppo impegnata a fare da collante con quella successiva per vivere indipendentemente: è lo stacco di montaggio a dire vita al ritmo e non più la durata interna dell’inquadratura, che pure avrebbe potuto scandire la relazione tra uomo e natura, tra individuo e territorio sconfinato. Di conseguenza il sentimento dello spazio: la montagna è lo sfondo dove è ambientato il racconto, non più l’autentico terzo protagonista del film.
La struttura del film risulta subito troppo complementare, troppo sintetica, per non manifestarsi immediatamente come programmatica e prevedibile. Si potrebbe dire che La prima neve è una riflessione sul tema del padre dove è possibile suddividere il corpus narrativo in tre momenti fondamentali: la perdita, l’elaborazione e la rinascita, declinati specularmente per i due protagonisti del film, Michele e Dani
La perdita: la morte del padre di Michele, bambino di undici anni che vive in Alto Adige. Questa morte è relegata al fuori-campo, se si eccettuano la dimensione onirica e quella orale. E se nella prima lo spunto è interessante perché non fa che alimentare il conflitto, nella seconda distrugge l’idea stessa di tutto il film: quella di una scomparsa irraccontabile a favore di una spiegazione conciliatoria. Michele svelerà a Dani la morte del padre. Dani è, sua volta, l’altra solitudine del film: arrivato in Italia per fuggire dalla guerra in Libia, perde la moglie, morta dando alla luce una bambina. Anche questa morte è in fuori-campo e viene resuscitata dalla dimensione orale.
L’elaborazione: il difficile rapporto tra Michele e la madre, la mancanza di una figura maschile e paterna, il senso di solitudine e di smarrimento tra quelle montagne che lo hanno privato del padre. E infine la sua relazione con Dani, estraneo adottato inconsciamente come nuovo padre. Questi, che lavora per la famiglia di Michele, non riesce a guardare la figlia negli occhi, perché in quello sguardo riconosce il suo amore perduto.
La rinascita: il tentativo di fuga di Dani (abbandono della figlia e nuova partenza). E, di conseguenza, la rielaborazione del lutto di Michele, che porterà Dani a riconsiderare le sue scelte: sul luogo del delitto (dove la montagna ha ucciso il padre del bambino) la mancanza del bambino sarà la cura dell’adulto e il suo definitivo ricongiungimento con la figlia.
La struttura ad incastro, l’ipotesi di una redenzione che passa attraverso l’altro, la specularità di due solitudini rendono il film di Segre un titolo troppo schematico per poter funzionare, troppo schiavo del meccanismo per poter apparire spontaneo. Alla ricerca di quell’autenticità perduta Segre lavora in eccesso, sottolineando musicalmente i passaggi più importanti, rischiando un didascalismo che non è mai stato nelle sue corde. Nella speranza che La prima neve sia solo un incidente di percorso e che Segre possa tornare alla sua vitale, perturbante rarefazione.