Davanti all’ultima opera di Tsai Ming-liang si rimane muti, attoniti, sconcertati. Verrebbe voglia di non scrivere neanche una parola, di lasciare la pagina bianca e consegnarla così, vergine, agli occhi dei lettori. Perché non esiste aggettivo, frase, intuizione, riflessione, per quanto profonda, che possa anche solo dare l’idea delle emozioni che è capace di trasmettere, dei fremiti e le vertigini che è in grado di regalare. Il regista malese torna al cinema forse per l’ultima volta. Un addio che in molti avevano fiutato da tempo – almeno dal precedente Visage del 2009 – ma che a ben vedere era intuibile sin da quella magnifica opera di cesura chiamata Che ora è laggiù? che metteva in scena la morte del padre di Hsiao Kang e si spingeva oltre i confini taiwanesi, configurando un doppio movimento che si concludeva con l’apparizione del fantasma paterno, capace di riattivare, con la sua presenza, la ruota panoramica e così facendo di far ripartire il tempo della storia, di spingere in avanti il percorso esistenziale del figlio consegnandolo al regno dei fantasmi. Fantasmi che infesteranno la sala cinematografica prossima alla chiusura di Goodbye Dragon Inn, danza di ombre e di spettri che nostalgicamente vedono se stessi davanti allo schermo piangendo la propria scomparsa, e che poi torneranno come corpi truffautiani in Visage, prima di dissolversi definitivamente dentro l’immagine. In quest’ultima opera non troverete citazioni dalla Nouvelle Vague, non vedrete Miao Tien vagare per le strade di Parigi o parlare con altri colleghi del glorioso cinema di King Hu, non vedrete spettri che ricordano le vite precedenti come in Apichatpong Weerasethakul ma solo le rovine di un mondo al collasso, detriti, residui di una civiltà prossima al tramonto e incapace di opporsi alla propria estinzione.
Come mai prima d’ora Tsai lavora sulla composizione delle inquadrature privilegiando le ombre, i tagli di luce che sezionano l’immagine, gli specchi, le vetrate, le superfici riflettenti che raddoppiano o triplicano la figura umana mostrandone il doppio fantasmatico, tanto negli spazi asettici e “moderni” dei centri commerciali dove i figli di Hsiao trovano rifugio durante il giorno, quanto nel palazzo che ospita lo spazio abitativo. Dentro l’inquadratura convivono tracce di un mondo postatomico e l’hereafter che qui si configura come spazio contemplativo nel quale perdersi davanti al mistero di un disegno che ipnotizza nella sua enigmaticità; ma anche come zona liminare circoscritta da mura scrostate che cercano (invano) di contenere le lacrime del mondo che piovono dal cielo. La fuga fuori da Taipei che evoca il titolo originale è impossibile: nessuna Arca di Noé/barchetta stile La morte corre sul fiume può salvare il protagonista e i suoi due figli dall’apocalisse imminente. Il viaggio di Hsiao Kang si ferma qui, proprio nel momento in cui scopre la paternità. L’Antoine Doinel di Tsai Ming-liang si accommiata dal mondo cinematografico senza autobiografie che riassumano amori passati ma solo attraverso uno sguardo terminale che sembra invitare gli spettatori a vedere il mondo con occhi diversi, in un certo senso a (ri)guardare e ripensare se stessi. L’ultima, straziante sequenza di quasi 15 minuti sembra il doppio rovesciato della famosa soggettiva dello schermo di Goodbye Dragon Inn che costringeva il pubblico ad assistere ad una platea ormai vuota dopo l’ultimo spettacolo. Anche lì la fine di un cinema e anche lì una Taipei fradicia di pioggia ma con una differenza decisiva: ai fantasmi cinematografici sopravviveva il proiezionista (interpretato, non a caso, dall’attore feticcio Lee Kang Sheng), depositario di una memoria filmica da lasciare in eredità alle future generazioni. Ma nella Taipei di oggi non c’è più posto neanche per i cinema, scomparsi insieme con lo skywalk di Che ora è laggiù?. L’unica soluzione è allora viaggiare attraverso il tempo fino a tornare alla purezza originaria dei segni preistorici delle caverne. Oppure a fissare, per l’ultima volta, il volto di Lee Kang Sheng, gonfio e segnato dagli anni, con gli occhi bagnati dalle lacrime e sempre sul punto di esplodere in un pianto lacerante. Cosa che avviene in due tra i momenti più toccanti del film: il primo quando canta una vecchia canzone tradizionale taiwanese mentre cerca di resistere al vento e alla pioggia; il secondo quando ingaggia un incredibile corpo a corpo con un cavolo, prima baciato, poi soffocato ed infine divorato voracemente. Oltre 21 anni di cinema fatto insieme, di ricordi, visioni. “Il suo volto è il mio cinema”, dice Tsai nel pressbook. Un percorso scolpito sul corpo di Lee Kang Sheng/ Hsiao Kang e condiviso con gli spettatori che si specchiano nelle rughe, nelle borse sotto gli occhi, nella stanchezza del passo. Ci si scopre cresciuti, invecchiati, forse più tristi, più fragili. Il lavoro sulla temporalità qui si carica di ancora maggiore complessità: non solo compresenza di tempi diversi (passato, presente, futuro) dentro l’inquadratura ma azzeramento di qualsiasi distinzione. Andiamo avanti e indietro incapaci di attribuire un tempo preciso. Oltre l’ordine cronologico sembra esistere solo la durata dello stare al mondo, l’intervallo entro il quale agiscono i corpi, in un unico blocco temporale che nega persino il ricordo di sé.
Davanti al magnifico attore taiwanese tornano alla mente il giovane ragazzo ribelle di Rebels of the Neon God, il venditore di loculi e l’agente immobiliare di Vive l’amour, il pianto straziato di Kuei Mei Yang (che qui ritorna per una breve apparizione all’inizio del film), il rapporto incestuoso tra padre e figlio ne Il fiume, i frammenti musicali di The Hole e Il gusto dell’anguria e quei due buchi che in modi diversi uniscono i mondi dell’uomo e della donna; e poi ancora Hsiao Kang mentre guarda il piccolo Antoine Doinel in televisione in Che ora è laggiù?, il proiezionista di Goodbye Dragon Inn, l’immigrato clandestino accudito e desiderato di I Don’t Want to Sleep Alone e, infine, gli attori di Truffaut chiamati al capezzale della madre di Hsiao in Visage. Venti anni di vita filmati e cristallizzati per sempre su pellicola. E poco importa se molti spettatori non reggeranno le durate “impossibili” di Tsai, se cederanno alla tentazione di uscire dalla sala o di abbandonarsi al sonno, se lo rifiuteranno. Peggio per loro perché quello che si perdono è un’esperienza che trascende il cinema, che sembra volerlo superare nel dissolversi definitivo dei corpi in puro sguardo disincarnato. Tsai porta alle estreme conseguenze il suo stile, allunga a dismisura i tempi delle inquadrature, rinuncia a raccontare una qualsiasi storia che non sia quella della (sua) fine. Tutto ha il sapore dell’ultima volta: la città di Taipei, filmata questa volta a “distanza”, ai margini fin quasi fuori dal perimetro metropolitano, in un limbo tra città e foresta; l’amore, messo in scena come rimpianto del passato; il corpo, rappresentato solo come espressione di bisogni fisiologici (mangiare, bere, dormire, pisciare) e poi la donna, incarnata da ben tre attrici diverse, che sono poi quelle di tutto il suo cinema. Tsai compie un’operazione simile a quella realizzata in Visage ma rivolgendola verso se stesso e il film, chiamando al capezzale del proprio cinema gli interpreti che ne hanno condiviso il percorso artistico. Fino al finale che ricorda il cavallo tarriano: il progressivo morire dell’immagine inghiottita dal nero. Mentre tutto intorno sembra esaurirsi, Lee Kang Sheng e Chen Shiang Chyi rimangono fermi, immobili, a contemplare il murale e forse a pensare ai tanti anni passati insieme, alle traiettorie condivise. Le lacrime segnano il volto di lei più volte fino all’abbraccio di lui che la stringe da dietro come per darle l’addio. Non resta che una lenta uscita di scena che ci lascia nudi e inermi davanti al nulla.