Xavier Dolan non si siede certo sugli allori. Al suo quarto film, il regista di Laurence Anyways disegna un’ulteriore traiettoria a effetto, pronta a spiazzare lo spettatore attraverso un tasso di complessità decisamente superiore rispetto ai suo film precedenti ma predisposta allo stesso tempo per irretire e affascinare. Ecco che allora il giovane cineasta canadese decide di avventurarsi in territori espressivi tutt’altro che abusati e consueti, fermamente intenzionato a scardinare tutto il campionario di prevedibilità autoriale che un’opera quarta, specie dopo tre film ben riusciti e legati da un’evidente continuità, avrebbe potuto portare con sé. Con Tom à la ferme si getta ancora una volta da una manciata di piani più in alto rispetto al film precedente in quanto a rischi, traendone un nuovo, fondamentale tassello sul quale incidere un ulteriore capitolo sulla propria personalissima e infuocata revisione del suo genere prediletto: quel mélo che Dolan tanto ama e che in Laurence Anyways assumeva le sembianze di un barocchismo addirittura aureo. Una definizione che sembra una contraddizione in termini ma che di fatto ben restituisce la natura di quel film, eccessivo e rutilante ma controllato in maniera millimetrica dalla mano di un regista di ferro e già enormemente maturo per i suoi ventiquattro anni.
Melodramma che in Tom à la ferme viene smembrato, scomposto pezzo per pezzo e poi infine rimontato in una sorta di frastagliatura cubista delle atmosfere: una scomposizione che consente al film di poter sfoderare un approccio più cerebrale e meno dettato dall’istinto, più morboso e battagliero, quasi un manifesto di autonomia e originalità. Un adattamento assai vitale da una pièce di Michel Marc Bouchard che aggiunge al cinema già svecchiato e propulsivo di Dolan una dimensione perfino avanguardista, non rinunciando alla vena grandguignolesca di Laurence Anyways ma immergendola in un contesto diverso, dove poterle dare fiato solo nei momenti strettamente opportuni. Tra questi c’è senza ombra di dubbio l’inizio del film: quella sublime carrellata aerea con in sottofondo una musica a volume elevatissimo che segue l’auto del protagonista su una strada ripresa ad altezza siderale. Una sequenza bellissima che lì per lì sembrerebbe riportare con la memoria a Shining anche se in maniera un po’ effimera e gratuita. Andando oltre la sola scena iniziale e arrivando fino agli sviluppi conclusivi del film, il rapporto di Tom à la ferme col film di Kubrick finirà però col rivelarsi qualcosa di ben più serio e meritevole d’essere evidenziato.
Dolan dà infatti l’idea di operare sui fantasmi, su figure evanescenti, su transitorie proiezioni intrise di follia e disagio. Apre le danze con un avvio così devastante e nel pre-finale ci regala un dialogo cameriere-cliente che pare anch’esso figlio di un altro grande momento celeberrimo del capolavoro kubrickiano. Un caso? Forse. Ma senza correre il rischio di sopravvalutarlo, sta di fatto che questa struttura ad anello così curiosa rende ancor più succulento l’appeal di un film imperfetto ma davvero gravido di spunti interessanti. Il suo afflato iperbolico, qua e là addirittura operistico, è cangiante, mutando pelle sia nelle tonalità, che abbassa e sfuma a suo piacimento componendo un andamento schizofrenico, sia da un punto di vista prettamente fisico, con il formato del film che cambia infatti in due – tre scene sottolineando il senso di tribolazione e di nevrosi.
L’arrivo del Tom interpretato dallo stesso Dolan in una fattoria del Québec agricolo, nella quale egli si reca per andare a trovare la famiglia del compagno defunto salvo poi scoprire che la volontà generale è quella di tenere tutto nascosto alla madre di costui, è il motore narrativo centrale di un’opera che se da un lato ha dalla sua molta personalità dall’altro sembra correre il rischio di piacersi troppo: la stasi centrale che segue i primi, enormi venti minuti, nella quale sostanzialmente non succede nulla, è il segnale allarmante e preoccupante di una tendenza verso un certo narcisismo. Una specie di filtro talvolta suggestivo talvolta vanamente straniante, incerto sulla direzione da prendere, che corre il rischio di potersi definire solo sghembo ed eccentrico più che davvero interessante e degno d’attenzione.
Fortunatamente però si tratta di riserve che lasciano il tempo che trovano, perché Dolan ha talmente tanto talento che riesce a riempire i vuoti del suo film alzando paurosamente il livello di guardia della tensione e del coinvolgimento in pochi ma significativi momenti da applausi che spazzano via i passaggi più claudicanti. E allora ecco che Tom à la ferme si trasforma miracolosamente in una specie di noir spettrale e allucinato, con la dimensione provinciale esasperata fino a toccare le corde pazze dell’incubo alienato, in cui tutta la realtà è messa in discussione e il twist risolutivo è acquattato dietro l’angolo di un vetro. Il post-finale, in pieni titoli di coda, sembra poi quasi un inserto metropolitano a metà tra Lynch e i lividi notturni del cinema di Hong Kong, ma sono riferimenti troppo all’ingrosso per il cinema mai così inclassificabile di Dolan, cineasta raffinato e autarchico come pochi della sua generazione e proprio come il suo paese, confinante agli USA ma di fatto decisamente a sé con la testa e con il cuore. Con l’elemento più, nel casso del Québec di Dolan, di una francofonia tutt’altro che irrilevante. A partire da questo crocevia che a sta alla base delle proprie origini culturali, Dolan orchestra il più classico dei film francesi girato come il più tipico dei film americani (e viceversa), contravvenendo però ai dettami interni sia degli uni che degli altri e producendo in definitiva qualcosa di completamente inedito.
Cinema attaccato alle lotte fisiche, agli odori, alle lacrime, ai primi piani, schietto ma anche fuori di testa, sincero ma anche fasullo, in posa ma anche estremamente naturalista, in bilico tra il tutto vero e il tutto falso. Ci si può giocare sopra con sprezzo del pericolo: e se fosse tutto un sogno, un incanto? Il bar del finale si chiama “Le vrais choses” (le cose vere), e potrebbe benissimo trattarsi di un’antifrasi. Dolan (regista, attore, montatore, costumista, talento spericolato e poliedrico) cavalca tutte queste contraddizioni, si perde un po’ quando astrae e sterilizza troppo il meccanismo narrativo dentro a uno spazio chiuso (la fattoria, che viene ad essere una specie di non-luogo transitorio), ma complessivamente realizza un film pretestuoso e maestoso al tempo stesso, tra il manierismo compositivo e pittorico (le spighe di grano hanno lo stesso colore dei capelli del protagonista da lui stesso interpretato, per fare un esempio) e l’urgenza del dramma. Una storia che, a essere sinceri fino in fondo, si vorrebbe stringere al cuore un po’ più forte di quanto un approccio razionale non induca a fare.