Venezia 72 / “Nightmare – Dal profondo della notte”: omaggio a Wes Craven
La Mostra ricorda il maestro scomparso e una carriera basata sulla continua esplorazione delle forme, tra sogno, nuove tendenze spettacolari e la forza del racconto morale.
Non è una semplice questione di nostalgia. Né tantomeno il doveroso saluto a un maestro che ci ha lasciato in punta di piedi, fra il cordoglio generale. Al contrario, la visione su grande schermo del primo Nightmare – Dal profondo della notte, nell’ambito della Mostra di Venezia, è un atto di appartenenza a una concezione di cinema personalissima eppure profondamente addentro ai meccanismi spettacolari di un’epoca. E’ un’opera fuori dal tempo eppure così straordinariamente rappresentativa di cosa volesse dire il New Horror nel suo farsi. D’altra parte non sarebbe stato possibile scegliere titolo più giusto, perché Nightmare non era ancora il post-horror metacinematografico alla Scream, ma già possedeva tutti i crismi della riflessione d’autore sul linguaggio del genere. Wes Craven auto-cita le trappole de L’ultima casa a sinistra e anticipa il terminale My Soul to Take nelle preghiere della sua Nancy, mentre strizza l’occhio alle nuove tendenze con il cameo televisivo de La casa e omaggia l’amato L’esorcista nella scena degli esami medici. Ma, soprattutto, lavora sulla fisicità del body horror coevo, opposta alla qualità onirica di un film che ha il sapore di una visione in perenne stato di sonnambulismo – curiosamente amplificata dalla recitazione straniata degli attori nella versione in lingua originale.
C’è quindi una sensazione di estrema modernità, quella insita nell’idea del killer onirico, che è tutta intellettuale, dove non a caso si cercano numi shakespeariani nelle scene a scuola – la saggistica negli anni si è letteralmente sbizzarrita nel reperire altre fonti visive e letterarie, da Bosch a Castaneda, ma a dominare è poi una pulsione più tattile e primordiale: c’è un erotismo velato, fra la procacità dei corpi esibiti nella loro sensualità (Amanda Wyss, Johnny Depp) e il non detto di un assassino pedofilo che artiglia i protagonisti adolescenti alle prese con le prime pulsioni puberali.
Per questo l’andamento è così ondivago, così capace di stare fra l’ossessione tecnica dell’effetto speciale esibito (a volte ancora sorprendente) e un approccio più ragionato. La vicenda, non a caso, è stretta non solo fra i due mondi dati dalla realtà e dall’immaginazione, in cui lo sguardo di Craven entra e esce divertito e senza soluzione di continuità, con i personaggi che sgattaiolano fra gli angoli delle inquadrature con un agire un po’ da fumetto: c’è anche una componente più lucida, quasi un percorso iniziatico cui sottoporre la protagonista Nancy. Il personaggio di Heather Langenkamp vede infatti crollare il mondo che le sta intorno tanto più quanto si affida all’aiuto di terzi, ed è solo quando capisce che la lotta contro il mostro è una questione personale, che deve essere risolta da sola, che Craven le fa avere partita vinta – al di là del post finale imposto dalla produzione.
Lì emerge una delle qualità più ambiziose di un film che ha anche una finalità morale, che non a caso insiste così a lungo sull’assenza e l’incapacità dei genitori, su una rimozione del problema che è un sostanziale “non vedere”, ignorare ciò che accade – tema caro al New Horror dell’epoca, basti pensare anche alle allegorie di un George Romero. In questo senso Craven è geniale per come reinventa le forme, ma è anche incredibilmente attento al suo ruolo di narratore nei confronti di un pubblico trattato con insolito rispetto. Il “suo” Krueger è un mostro affascinato dalla rappresentazione di se stesso, esibisce la sue mutilazioni con orgoglio, ma è anche l’Uomo Nero per antonomasia, con tutto il precipitato metaforico che ne consegue. Ecco, a rivederlo oggi, Nightmare è il film che ci manca: per ciò che è, ma anche per ciò che rappresenta, ovvero l’opera summa di una concezione autoriale basata sull’esplorazione, dove non c’è soluzione di continuità fra un estremo e l’altro, ma una perenne ricerca di un limite da superare, pur nella fissità dei principi morali inderogabili. E’ quanto Craven continuerà a perseguire poi negli anni, assumendosi dei rischi incredibili per una carriera che poteva ormai giocare sul sicuro, dove anche le cadute (Dovevi essere morta) valgono tanto quanto le risalite (Il serpente e l’arcobaleno, La casa nera) perché figlie in ogni caso di un non adagiarsi mai. Questo è il suo autentico lascito, l’eredità più pesante che i suoi epigoni dovranno avere il coraggio di raccogliere.