Good Boy
Compatto, denso di suggestioni e dal finale potente. Un film che trova spazio tra l’horror speculativo e il thriller, vincitore del titolo di Miglior Film nell’ultima edizione del Monsters di Taranto.
“Il limite dell'amore è sempre
quello di aver bisogno di un complice.
Questo suo amico
sapeva però che la raffinatezza
del libertinaggio è quella di essere
allo stesso tempo carnefice e
vittima.”
Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
In una società nella quale le definizioni di amore sono costantemente oggetto di contesa politica, dove non si flirta ma si matcha, qual è il cortocircuito tra cura e sottomissione? Una possibile risposta a questa domanda è il pretesto narrativo di Good Boy, il terzo lungometraggio del regista norvegese Viljar Bøe, presentato al Monsters Taranto Horror Film Festival, organizzato dall’associazione Brigadoon e sotto la direzione artistica di Davide Di Giorgio. Quest’anno la manifestazione è arrivata alla sua sesta edizione, premiando Good Boy come Miglior Film nel Concorso Internazionale Lungometraggi.
Per la sezione Concorso Cortometraggi la giuria del festival ha premiato un'altra produzione scandinava, l’animazione The Lovers della svedese Carolina Sandvik. Il riconoscimento come Miglior Film della sezione Off Horror è andato invece a The Fifth Thoracic Vertebra, del sudcoreano Syeyoung Park.
Uno degli aspetti più interessanti di Good Boy riguarda la messa a fuoco, spietatamente verosimile, sul ruolo del potere nelle dinamiche relazionali. Sigrid, interpretata da Katrine Lovise Øpstad Fredriksen, è una studentessa lavoratrice che inizia a frequentare un ragazzo di nome Christian, conosciuto su un app di appuntamenti. Incarnato da Gard Løkke, il giovane appare come lo stereotipo del classico rampollo miliardario, dall’aspetto impeccabile, estremamente curato e dal carattere introverso, consapevole della sua scarsa propensione alla socializzazione. Il primo appuntamento fra i due segue il perfetto copione di una commedia romantica, ma è compromesso da un solo aspetto. Christian invita Sigrid a casa sua, in una villa nella quale dice di abitare in compagnia del suo cane Frank, che in realtà non è un vero e proprio animale domestico ma un uomo adulto che si comporta come se fosse un cane, indossando un travestimento.
Viljar Bøe sceglie ambientazioni asettiche, luci fredde e il costante movimento della macchina a mano come comuni denominatori di un film nettamente bipartito tra un primo tempo dal taglio provocatorio e un secondo che passa repentinamente dal thriller all’horror. L'iniziale atmosfera rassicurante scivola in una spirale di tensione sempre più cupa, verso il superamento di ciò che poteva essere considerata come una pratica consensuale fra Christian e Frank, in direzione di uno scenario perverso e disturbante.
Dalle prime inquadrature che delineano il profilo del protagonista, Christian è osservato da vicino nei suoi gesti quotidiani, a primo impatto del tutto normali, tipici di una qualsiasi persona metodica, ordinata e abitudinaria. Gard Løkk restituisce l’algidità minacciosa del suo personaggio con una recitazione composta, imperscrutabile. Peccato che fra tutti, Christian sia l’unico personaggio a essere caratterizzato da particolari e dettagli, a discapito di quelli di Sigrid e di Frank, che invece restano solamente abbozzati e privi di consistenza. Uno dei fattori ai quali si potrebbe ricondurre la stesura di una sceneggiatura un po’ troppo precipitosa e sommaria può dipendere dal budget limitato. Di fatto, Good Boy dura solamente 79 minuti in cui si condensano parecchi messaggi, si susseguono registri appartenenti a differenti generi, si mette molta carne al fuoco.
Uno degli aspetti maggiormente perturbanti del film riguarda le argomentazioni che Christian utilizza per manipolatore Sigrid, rispetto al rapporto che ha instaurato col suo bizzarro coinquilino Frank. Il giovane miliardario la porta a mettere in discussione il concetto di normalità, avvalorando la sua tesi nel riferirsi esplicitamente all’approvazione sociale delle persone omosessuali nel corso della storia. Anche un’amica, con la quale Sigrid si confida, convince la ragazza ad essere di larghe vedute, di considerare la possibilità che si tratti di un puppy play, una pratica BDSM del tutto consensuale. Soprattutto, la esorta a non lasciarsi sfuggire un pretendente col quale sistemarsi, che potrebbe risolvere definitivamente ogni suo problema presente e futuro. Sigrid si lascia persuadere sia dalla retorica, sia dalle coccole lussuose, sorseggiando vini costosi in calici di cristallo e godendosi le totali attenzioni di una persona che non ha niente di cui preoccuparsi durante la giornata, se non del suo cane e del conteggio delle calorie. Sembra quasi che lei stessa ceda alla tentazione di barattare la sua libertà in cambio di certezze, al riparo da qualsiasi preoccupazione legata alla sussistenza. Di contro, Christian potrebbe sembrare capace di relazionarsi solamente quando può esercitare il massimo controllo coercitivo sull’altro, esattamente come fa per sé stesso, per la cura del suo corpo e dei suoi spazi. Sotto questa lente, parrebbe che vittima e carnefice siano stretti da un legame di complementarietà tale per cui, nel gioco delle parti, un ruolo non può esistere senza l’altro.
Eppure, se l’idea attorno alla quale ruota l’intero film tiene desta l’attenzione dello spettatore, la scrittura prende una direzione troppo sbrigativa, ricalcando le convenzioni del genere horror senza riuscire a caricarle di personalità. Il profilo psicologico dei personaggi, per l’appunto solamente abbozzato, pur lasciando intendere le ombre dietro ai costumi della nostra epoca in merito ai rapporti interpersonali, lascia alcune questioni in sospeso. Una di queste riguarda, ancora una volta, Sigrid e le scelte impulsive che prende nella seconda parte del film, così poco sufficientemente plausibili da smorzare la tensione che avrebbe potuto essere ancora più drammaticamente incisiva. In merito alla regia, dalla cifra stilistica non particolarmente evidente, sembra che si abbia preferito dare priorità alla fotografia.
È invece nel finale che il soggetto di Bøe esprime totalmente le sue potenzialità, lasciando intendere le sorti infauste delle vittime di un sociopatico, affetto da manie di controllo patologiche. Gli ultimi minuti di Good Boy sono talmente interessanti da riabilitare l’intero film, specialmente per la finezza del montaggio con cui si avvicendano le ultime sequenze di violenza a una chiusura che non ha bisogno di mostrare sangue o torture per essere agghiacciante. Complessivamente, nonostante alcuni snodi narrativi inesplorati, Good Boy offre nuovi possibili spunti di riflessione nel panorama dell'horror contemporaneo e lascia presumere che la crescita artistica del regista Viljar Bøe stia prendendo la giusta direzione.