Viviane
L'appiattimento del significante sul significato svilisce l'opera fino a renderla prevedibile e, peggio ancora, innocua.
Ci sono film dove il tema, soprattutto se connesso all’attualità, sembra essere più importante di tutto il resto. Come se il reale rivendicasse una sorta di primato sulla costruzione filmica. In questi casi il cinema accompagna le proprie riflessioni mettendosi in disparte, in secondo piano, quasi timidamente, come se costruire un linguaggio personale non faccia che banalizzare o peggio volgarizzare la portata politica del contenuto. E’ ancora e sempre la vecchia, annosa questione della forma. Si tratta di scelte naturalmente, ma una cosa è certa: la forma è sempre funzionale al proprio discorso. Il punto semmai è capire in che misura dovrebbe confrontarsi con il contenuto, se accompagnarlo, lasciando che siano i “fatti” a parlare, oppure se debba costituirsi essa stessa come significato. E qui veniamo al problema maggiore del pur interessante film di Ronit e Schlomi Elkabetz, Viviane. Un film “urgente” e necessario, per usare due etichette che piacciono tanto a certe categorie critiche, eppure poverissimo in senso filmico. L’idea era semplice: raccontare la storia di una donna che cerca invano di separarsi dal marito, concentrandosi sulle udienze in tribunale, in modo da far emergere, in tutta la sua scandalosa evidenza, il maschilismo della società israeliana. Perché in Israele una donna non può divorziare senza il consenso del coniuge, al quale il tribunale rabbinico riconosce un’autorità superiore. I due registi, qui al terzo e conclusivo capitolo di una trilogia firmata a quattro mani, scelgono la via del rigore e dell’essenzialità: la messa in scena, spogliata di qualsiasi orpello, è costruita esclusivamente sulle soggettive dei personaggi. Ogni inquadratura quindi ha un referente preciso, non c’è spazio per una visione esterna delle cose, o meglio, la (presunta) oggettività della scena si ottiene dalla sommatoria dei punti di vista, sempre rigidissimi e paradossalmente impersonali. Ecco la contraddizione: fare un film su un principio discriminatorio, abolendo ogni singolarità. La soggettiva allora è solo un mero artificio filmico, una trovata registica – pensata magari per innestare un principio di alternanza su uno spartito ripetitivo – che non aggiunge nulla ai fatti raccontati, ma anzi, in qualche modo sembra lavorare in opposizione ad essi. Si dirà: i registi hanno voluto restituire visivamente ciò che viene negato alla sua protagonista, ovvero l’uguaglianza davanti alla legge. Ma in fondo cosa importa? Tutto ciò che l’immagine non riesce a spiegare o a mostrare, viene esplicitato attraverso le parole. E qui torniamo al punto dal quale siamo partiti: la relazione tra forma e contenuto. Quel che i due autori sembrano non aver compreso è proprio l’essenza intrinsecamente politica della forma, capace ben più di una storia, per quanto efficace o “esemplare”, di sabotare pratiche discorsive dominanti. In questo caso, al contrario, l’appiattimento del significante sul significato svilisce l’opera fino a renderla prevedibile e, peggio ancora, innocua. Certo, in quel tribunale, sul banco degli imputati, troviamo non solo due persone ma un intero paese, chiamato ad affrontare le sue enormi contraddizioni, ma questo di per sé non rappresenta una grande novità. Il miglior cinema israeliano di questi anni ha saputo oltrepassare le consuete prospettive politiche, rivolgendosi non più verso il "nemico esterno", ma attraversando la frontiera interna che separa i cittadini gli uni dagli altri, i ricchi dai poveri, gli omosessuali dagli eterosessuali, i credenti dagli atei, le donne dagli uomini, i soldati dai civili. I film di Roee Rosen, Nadav Lapid, Silvina Landesmann, hanno contribuito a questo contro-racconto aggiungendo, all’assunto politico, una messa in scena problematica. Esattamente quello che non sono riusciti a fare i fratelli Elkabetz.