Vulcano
L’efficace rappresentazione dei limiti e delle virtù di una dimensione ancestrale, contrapposta a quella di un mondo civilizzato e tecnologico.
Regalando allo spettatore il privilegio di introdurlo in un mondo affascinante quanto distante, in cui sono ancora la potenza della natura e la forza della vita che si sovrappongono, si intersecano e si identificano l’una nell’altra, a dare un senso all’esistenza, il regista guatemalteco Jayro Bustamante, classe 1977, firma un’opera che possiede gli elementi del documentario etnografico e antropologico, impreziositi da una narrazione lineare e solida che ne evita il taglio meramente nozionistico, mettendo in risalto, con notevole capacità empatiche, gli aspetti più autentici e intensi di una dimensione primordiale potente e determinante.
Esordio decisamente promettente dunque, Ixcanul, Vulcano il titolo italiano, che vince meritatamente l’Orso d’Argento alla 65° edizione della Berlinale, dando al regista un posto di tutto rispetto tra gli autori emergenti da tenere d’occhio.
Egli mette a servizio dell’opera gli studi effettuati in Europa, a Roma e a Parigi, tornando nel suo paese con il dichiarato intento di raccontare la realtà in cui ha vissuto fino ai 14 anni. Ambienta il suo lavoro in una zona isolata degli altipiani del Guatemala, alle pendici di un vulcano ancora attivo, dove una piccola comunità appartenente a un’etnia della popolazione Maya, chiamata Kaqchikel, vive traendo sostentamento da una piantagione di caffè.
Quella su cui ci affacciamo è una realtà in cui il progresso e la tecnologia non hanno ancora contaminato i valori ancestrali che orientano la vita e l’agire dei nativi del luogo, dove queste popolazioni sono assoggettate ed escluse dai colonizzatori spagnoli di cui non parlano nemmeno la lingua, difendendo orgogliosamente il loro dialetto.
Una realtà in cui la luce elettrica e l’acqua potabile sono un lusso che quasi mai è presente nelle case, in cui ancora vi è una dimensione spirituale fortissima, viva e centrale, di stampo cattolico ma caratterizzata da una natura animista, legata a rituali e cerimonie radicati nel tempo.
Bustamante si muove su più piani, quello narrativo, quello sociale e un piano più intimo e profondo, che si compenetrano, sostenendosi l’un l’altro, conferendo al prodotto finale un valore complessivo molto maggiore di quello che avrebbe avuto se non avessero contribuito tutti a costituirne la struttura.
Nello specifico, ognuno di questi piani è in un certo senso nutrito e arricchito dall’apporto degli altri, il tratto documentaristico e antropologico, che da solo sarebbe stato più sterile, viene reso vitale dalla presenza di un racconto che ne esalta l’autenticità; allo stesso modo una tematica non esattamente originale e poco trattata come quella di una condizione femminile repressa e discriminata che comporta matrimoni imposti e limitazioni della libertà individuale, viene valorizzata e resa meno ovvia dalla forza delle tradizioni che la accompagnano e dall’intensità con la quale vengono presentati i contesti relazionali nei quali viene vissuta.
L’impegno sociale ha consentito a Bustamante di rendere più realistica la sua rappresentazione, raccontando la realtà messa in scena, da una prospettiva interna.
La lavorazione del film ha comportato, infatti, una lunga attività propedeutica, durante la quale il regista ha agito in prima persona, organizzando degli incontri che hanno visto coinvolta la popolazione del luogo, in particolare le donne che, trovando un raro spazio in cui potersi esprimere, a poco a poco si sono aperte confidando le loro storie, credenze, desideri e tradizioni: questo gli ha permesso di arricchire di elementi reali la sua sceneggiatura, rendendola genuina e attribuendole ulteriore veridicità.
Bustamante riesce molto bene nel contrapporre il potente rapporto ancestrale tra uomo e natura al progresso e alla civilizzazione, dando luogo alla descrizione accorata di una realtà della quale, contemporaneamente, esalta il valore e denuncia i limiti.
Un modo di vivere che, per quanto estremamente limitato e arretrato, paradossalmente appare essere, per alcuni aspetti più solido e autonomo di quello di un mondo civilizzato maggiormente evoluto, che paga il prezzo di rinunciare a valori primordiali innati, dove l’introduzione di elementi artificiali porta inevitabilmente a far sì che certe ricchezze vengano trascurate, se non progressivamente perdute.
Probabilmente è proprio nell’espressione di quest’ambivalenza, della contraddizione rappresentata dal convivere di limiti e virtù di una realtà di altri tempi, che risiede uno dei maggiori pregi del film.
Così emergono forti e chiare le mancanze di un mondo nel quale è usuale un pranzo grottesco in cui i genitori di una ragazza parlano di lei e di quella che sarà la sua vita affettiva e sessuale insieme ai futuri suoceri e al futuro marito, come se la donna non fosse presente e senza che nessuno sia interessato a quello che prova realmente.
Un mondo in cui la Natura, ritratta da un’ottima fotografia, ha un ruolo fondamentale, le viene riconosciuta ancora una potenza superiore: è un’entità che in qualche modo conduce il gioco direzionando la vita delle persone, dove è un vulcano a decidere le sorti delle nascite, degli esiti di un raccolto, la salute o la malattia, o dove si dipende ancora dai serpenti per poter seminare, lavorare e mantenersi.
Lo stesso vulcano che diventa anche una protezione da un mondo civilizzato che, per quanto desiderato, è percepito come estraneo, ostile, che fa ancora paura e che fa da confine naturale tra due universi ancora incompatibili.
“Qui l’aria profuma di caffè e di vulcano, non hai paura di andare via?” dice Maria, la protagonista diciassettenne, al ragazzo cui chiede di portarla con sé negli Stati Uniti, che rappresenterebbe la sua unica possibilità di cambiamento di un destino già deciso e scritto per lei.
E si percepisce altrettanto chiaramente come in quello stesso mondo, in cui nonostante la condizione femminile sia oppressa e limitata, è presente una dimensione matriarcale fortissima. Il nascere, crescere e fluire della vita sono sostenuti da un istinto innato, radicato, che l’autore esprime magnificamente attraverso il personaggio potentissimo di una piccola donna incredibilmente vitale e testarda, mamma della protagonista e interpretata meravigliosamente da María Telón, che riesce a restituire in tutta la sua autenticità il valore della vita, l’amore per un figlio, la presa in carico delle responsabilità del peso familiare, la cura.
La gestione della gravidanza della figlia, le paure e le gioie che la accompagnano, una condivisione pura, profonda, fisica, ci viene offerta in modo incredibilmente toccante e intenso, senza che vi sia alcun sentimentalismo, un’emotività intensa ma asciutta, mai melodrammatica.
Di rara bellezza due scene che testimoniano il rapporto e l’unione tra le due donne, quella in cui nude entrambe accolgono tra loro la nuova presenza e la madre regala la sua esperienza alla figlia, e quella in cui Maria viene incitata dalla madre a saltare, sul monte, salti volti a raggiungere un obiettivo poi mancato.
La mimica, sulla quale la regia è abile a indugiare utilizzando prevalentemente primi piani, ha un peso notevole nel trasmettere tutta una serie di elementi particolarmente incisivi.
Le uniche due volte in cui Maria sorride, esprimono esattamente l’ambivalenza di cui si è parlato.
La prima, quando, unica domanda rivoltale durante il pranzo, le viene chiesto se ama il suo futuro marito, e lei sorride, come se fosse la cosa più normale del mondo sorridere in base alle aspettative altrui, talmente più grandi della propria verità da relegarla dentro di sé sino a farla scomparire, senza che se ne veda traccia.
E la seconda, bellissima, quando dopo tutti i tentativi di liberarsi della scomoda gravidanza, la madre le dice: ”è la fiamma della vita, non posso farci nulla, è destinato a vivere” e il sorriso che le illumina il volto esprime tutto l’istinto innato di una donna, il sollievo, l’atavica predisposizione a seguire la propria natura e a perpetuare la specie.