Sono numerosi i documentari, usciti negli ultimissimi anni, che cercano di restituire e portare testimonianza, in “presa diretta”, della guerra civile siriana, immergendo lo spettatore nella tragica realtà che la popolazione è costretta ad affrontare quotidianamente. Il cinema di opposizione al regime, prevalentemente limitato alla forma documentaria, ha ottenuto importanti riconoscimenti all’estero, tra cui candidature all’Oscar per il Miglior Documentario, come nel caso di questo Alla mia piccola Sama (For Sama).
Waad al-Kateab, studentessa siriana residente ad Aleppo dal 2011 al 2016 denuncia il regime di Assad mostrando le violenze e le privazioni a cui sta andando incontro la popolazione. La handycam della giovane serve sia come strumento di documentazione e testimonianza sia per rivendicare libertà politica. Dal momento che le principali agenzie di stampa, i maggiori network di informazione e i giornalisti professionisti sono stati banditi dal paese, i cittadini siriani si sono assunti la responsabilità e l’imperativo di riprendere e denunciare il regime di Assad. Ad emergere in questo scenario è la figura del citizen camera-witness, termine che si riferisce ai dissidenti e agli attivisti politici che, a differenza dei testimoni oculari, i quali in maniera casuale e fortuita assistono a un evento, sono consapevoli dell’importanza e del ruolo che assumono, così come il rischio a cui vanno incontro nel filmare.
Con l’obiettivo di fornire e trasmettere un senso di presenza e autenticità, For Sama adotta alcune delle caratteristiche estetiche e formali proprie del citizen imagery, delineate da Andén Papadopoulos, come l’ipermobilità, l’opacità, la non-narratività e il raw audio. Molte delle immagini realizzate nel film assumono il compito principale di prove fattuali, immagini-prova, immagini-choc, atte a provocare una reazione nello spettatore, a smuovere la coscienza dell’opinione pubblica, cercando di promuovere opere di solidarietà, aiuti umanitari o interventi a livello militare, strumento per indirizzare la rabbia delle vittime del regime verso i responsabili dei soprusi e verso l’immobilismo del mondo esterno. Tuttavia, molto spesso, il soffermarsi della macchina da presa su scene ed episodi strazianti, come un gruppo di uomini stesi a terra privi di vita, uccisi dalle milizie di Assad, o una donna che tiene ancora in braccio il figlio morto a seguito di un bombardamento, rischia di avere un effetto prevalentemente patemico, emozionale, piuttosto che stimolare lo sviluppo di un pensiero critico da parte dello spettatore. La stessa regista si interroga su questo aspetto: «Milioni di persone seguono i miei report ma nessuno interviene contro il regime».
Il grado di spettacolarizzazione e di patemizzazione nella restituzione del dolore, a cui il film va incontro, rischia di non comportare una comprensione più ampia del significato dell’evento e la formazione di un pensiero critico ma indurre prevalentemente sentimentalismo e commozione. Contrariamente, film come Jellyfish (Khaled Abdulwahed, 2015), Still Recording (Ghiath Ayoub, Saeed Al Batal, 2018) o Autoritratto siriano (Ossama Mohammed, 2014) cercano di proporre un processo di ri-elaborazione delle immagini amatoriali realizzate dai cittadini per documentare gli atti di violenza del regime, riflettendo intorno al loro statuto, al loro valore storico e traumatico, al processo di ri-mediazione e ri-contestualizzazione che questa subisce. Il percorso affettivo ricreato e ricercato in For Sama viene a intensificarsi in alcuni momenti attraverso un rimodellamento finzionale, che si discosta dalla pretesa della restituzione non mediata della realtà filmata, in cui il suono in presa diretta viene sostituito dalla musica drammatica, inserita in modo da poter coinvolgere emotivamente lo spettatore, o attraverso l’utilizzo di riprese aeree effettuate da un drone, atte a fornire una visione estetizzante del paesaggio distrutto dal fuoco del conflitto.
La catastrofe e la violenza, la focalizzazione sulla morte, la tortura, i danni fisici e strutturali mostrati nel film vengono, a ogni modo, alternati con momenti di speranza, rapidi istanti di gioia e festeggiamenti, dal matrimonio della regista con Hamza, un giovane medico, alla nascita della prima figlia, Sama, a cui la madre si rivolge nel corso dell’intero film, così come della seconda, Taima, nel finale. Il film in questo modo riesce a riflettere intorno a uno dei topoi del cinema documentario siriano, ovvero l’infanzia distrutta dalla violenza della guerra. La regista stessa si interroga sulla propria maternità, se sia giusto o meno far crescere dei figli sotto il fuoco del conflitto, aggiungendo uno sguardo e una sensibilità femminile unica all’interno del panorama documentario sulla guerra civile siriana.