Young Syrian Lenses – Media attivisti ad Aleppo
La Siria, straziata dalla guerra civile, nelle voci e nelle immagini di documentazione dei 'media attivisti', nuovi combattenti dell'informazione nell'impossibilità dell'immaginario
Aleppo (Siria) Maggio 2014. In ripresa frontale alla camera, un uomo si presenta, “io sono il munshed”, cantante di musica sacra (è il canto come forma popolare, forma arcaica di veicolazione, divulgazione di massa e condivisione della visione religiosa). L’uomo ha viaggiato per il mondo e per questo concede la sua peculiare video-testimonianza sulla propria esperienza di apprensione via Tv, quando era a New York per un concerto, delle immagini di feroce guerilla e indiscriminata violenza, che si consumano nella rivolta civile siriana. Confrontandosi con altri interlocutori fuori campo e con l’operatore dietro la videocamera concorda le modalità del suo racconto orale, che ora soggiace al filtro mediatico dell’inquadratura montata, estrapolata dalla fluidità e linearità del sé non più cantore, ma personaggio-testimone oculare doppiamente media orientato: prima come spettatore televisivo, destinatario indistinto delle trasmissioni di denuncia e poi come voce testimoniale di rielaborazione soggettiva ed emotiva della sua stessa spettatorialità. Titolo di testa: Young Syrian Lenses – Media attivisti ad Aleppo .
Ora una diversa voce fuori campo, la figura ai margini del quadro in favore del camera car, si presenta in prima persona, “Lavoro per Halab News, da quando è iniziata la rivoluzione, come video reporter”.
La testimonianza è quella del media- attivista, che assume un volto, frontale nella tradizionalità della video intervista, solo dopo aver anticipato la sua identità nei termini dell’affiliazione alla Tv più influente di Aleppo, operatore militante nella produzione di immagini sul campo destinate primariamente alla comunità internazionale. Prende corpo, dunque nelle parole illustrative sulle immagini di macerie e sfollati civili, il suo sdoppiamento dinanzi e dietro l’obiettivo di ripresa. Lui è un combattente di nuova generazione, che documenta a rischio della vita stessa, i bombardamenti e le morti innocenti, le repressioni governative e le milizie d’opposizione, sotto cui, ieri come oggi, negli atavici ricorsi storici, l’umanità affonda, soccombe tragica, perché impossibilitata a trovare scampo, qualsiasi sia la prospettiva di fuga.
Ciò che evolve piuttosto è il campo di battaglia, che oggi più che in passato, si salda irrimediabilmente all’immagine rubata o salvata. Dell’informazione visiva che, anche quando sotto rigido assedio, può assurgere a sedimentazione di memoria, purché rivesta però, forme narrative intense, isolate e dilatate, come nel reportage fotogiornalistico da un lato, e delle irriducibili derive a doppio taglio delle comunicazioni mass mediali, su tutte la spettacolarizzazione eterodiretta della morte, soprattutto quando sprofondati nell’estrema tensione terroristica del fondamentalismo politico- religioso dall’altro, ci parla Young Syria Lenses, realizzato a più riprese dai documentaristi marchigiani Filippo Biangianti e Ruben Lagattolla .
“Vedere non è raccontare”. Il cameramen del network Tv del fronte di resistenza ci rammenta nella sua disarmante semplicità la fondamentale verità che “narrare necesse est”, perché si possa sopravvivere alla crudeltà quotidiana della guerra. O della vita in sé, perché la questione mitopoietica quale reazione di salvezza e autoliberazione, ben si radicalizza all’essere uomo, come insegna la speculazione filosofica di Odo Marquand nell’opera Apologia del caso . Il filoso tedesco sentenzia senza repliche che l’uomo è obbligato al racconto, soprattutto quando al cospetto di atrocità ineluttabili, questo è l’ultima e unica libertà che ci resta, “raccontare ciò che nelle storie non si riesce a cambiare”. Ed ecco allora che Young Syria Lenses paradossalmente ci mostra la disumanità più intima e logorante sotto lo spettro dell’immagine fagocitata dal consumismo massmediatico, ovvero la negazione della profondità del racconto, quale messa in linguaggio simbolico di un universo interpretativo degli eventi stessi. Il film, documentario di un calvario di vittime e bombardamenti ripresi a ridosso delle esplosioni, sottende infatti l’empietà dell’urgenza di un racconto meditato, proprio mettendone in evidenza la bruciante assenza, nello specifico l’impossibilità di realizzare la mostra fotoreportagistica, che gli stessi media attivisti, martoriati nella vista reiterata della morte quotidiana, avrebbero voluto allestire tra le mura di una scuola, poi bombardata poco prima dell’allestimento.
Il terrorismo è senza dubbio anche l’avvelenamento di radici di memoria che sia forza, anziché insostenibile fardello. I documentaristi lo sanno bene e non avendo potuto seguire un’azione di lotta compiuta contro il terrorismo dell’immaginario, non avendo potuto suggellare col proprio obiettivo la forza di rivalsa che consente la resistenza psicologica, si soffermano sull’eloquenza agghiacciante di altre immagini, forse ancor più impressionanti dell’icasticità fotografica, i disegni dei piccoli alunni superstiti, i sogni e le visioni fantasticate ormai compressi per sempre, impossibile oggetto di indagine onirica per i posteri. Cosa che invece nel mondo globalizzato tendono a voler costituire i contenuti mediali per lo più televisivi (la visione del mondo al ritmo della notiziabilità dell’informazione) sottacendo invece lo statuto di strumento privilegiato, anche se involontario, della logica terroristica stessa: la creazione di media events altamente spettacolari e simbolici su scala e portata mondiale. L’ammorbante effetto strage che solo la pseudo compartecipazione televisiva è in grado di generare e rinnovare di volta in volta.
In definitiva ponendosi alla pari degli stessi demoni che denuncia e combatte Young Syria Lenses tenta di scuotere la riflessione di stallo sul confine che tiene insieme informazione e spettacolarizzazione, informazione sufficiente e corretta e informazione quale arma di distruzione psicotica finalizzata. Rammentandoci però la spirale viziosa e ineludibile per cui una cosa è la condizione inestimabile di verità, un’altra la condizione di convivenza con le verità medesime.