The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft
L'ultimo, straordinario documentario di Werner Herzog è la storia commossa e commuovente della gestazione di uno sguardo, in cui assistiamo incantati al prendere forma dell’occhio, fino al dissolversi di quest’ultimo nelle forme stesse che tenta di catturare.
Dovremmo essere grati del fatto che l’Universo là fuori non conosce sorriso alcuno.
Werner Herzog, Dichiarazione del Minnesota
Non c’è stabilità in ciò che facciamo. Nessuna stabilità negli sforzi umani, nessuna stabilità nell’arte, nessuna stabilità nella scienza. C’è una specie di crosta che si muove in qualche modo.
Werner Herzog, Dentro l’Inferno
La terra trema. Da questa considerazione partiva Seneca nelle Naturales quaestiones per giungere a quell’elevazione morale verso la morte che i protagonisti del cinema di Werner Herzog incarnano con le loro imprese – e le loro riprese – oltre il limite dell’effabile. È stoico lo stesso regista bavarese che, in Dentro l’inferno, sull’orlo del cratere del Monte Erebus (Antartide), insieme al vulcanologo Clive Oppenheimer, riflette con queste parole sulla precarietà del fare e dell’operare umano. Eppure, aggiunge subito dopo, i vulcani sono le stesse forze generatrici che hanno permesso la vita sul nostro pianeta. Nel ciclo di genesi e devastazione delle potenze naturali, affiora il meraviglioso non senso dell’inesauribile ricerca artistica che, nella poetica herzoghiana, trova con la scienza una sotterranea osmosi – basta pensare a come, nei titoli di coda de L’ignoto spazio profondo, il regista ringraziava la NASA «per il suo senso poetico». In entrambi i casi si tratta di imparare a guardare. Ecco allora che The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, nonostante gli scenari catastrofici cui ci pone di fronte, è prima di tutto la storia commossa e commuovente della gestazione di uno sguardo, in cui assistiamo incantati al prendere forma dell’occhio, fino al dissolversi di quest’ultimo nelle forme stesse che tenta di catturare. Film sulla creazione, dunque, inno alla potenza del cinema come chiave alla tenebrosa luce del reale e, soprattutto, accorato omaggio a due titanici artisti dell’immagine. Una storia, come tutto il grande cinema, della luce e del buio. Una storia dell’occhio.
A sei anni dal documentario Dentro l’inferno, il cinema materico ed estatico di Herzog torna così alla furia del fuoco – l’elemento più caro al regista – e allo strepito della terra. Attingendo quasi esclusivamente al girato che i vulcanologi alsaziani Katia e Maurice Krafft hanno prodotto riprendendo eruzioni vulcaniche in tutto il mondo a folle prossimità, a partire dagli anni Settanta fino al giorno della loro morte compreso, il 3 giugno del 1991, la voce fuori campo e il montaggio di Herzog cuciono i fili di questo straordinario percorso a caccia di immagini «mai viste prima». Dai primi filmati girati in Islanda fino all’evento piroclastico del Monte Uzen, in Giappone, che costò la vita ai Krafft, passando per la tragica devastazione provocata dal Nevado del Ruiz, in Colombia, e per la rovina lasciata sull’isola indonesiana Una-Una, osserviamo questi due spiriti herzoghiani muovere i primi passi incerti con la macchina da presa mentre inquadratura dopo inquadratura il loro sguardo acquista solidità e afflato lirico e la forza delle loro immagini dirompenza visionaria, in un mutuo scambio in cui la realtà filmata prende forma dinanzi a chi filma e ne plasma a sua volta la visione. Siamo all’essenza stessa del cinema di Herzog, teso da sempre alla ricerca del punto di vista, di volta in volta estremo, alieno, estatico, sovraumano e al contempo umanissimo, che possa far brillare la luce del reale nella sua irriducibilità immaginifica, lontano dalla retorica posticcia di una presunta oggettività. Una lezione, quella sul punto di vista, che è poi la stessa offerta ad un livello più ampio ed esterno dal modo in cui Herzog decide di raccontare la storia di Katia e Maurice, i quali, agli occhi del bavarese, sono prima di tutto due artigiani prometeici dell’immagine – altri decideranno di raccontarne un’altra storia.
La sensibilità registica dei due vulcanologi evolve così dall’impersonalità scientifica dei primi filmati a un approccio più umanistico e antropologico, fino a sequenze di indicibile bellezza che sembrano evocare Friedrich o altre che paiono uscite dal set di un blockbuster allucinogeno – o come dice Herzog, commentando alcune immagini, «da uno spaghetti western trasformatosi in un incubo». E ancora, squarci in cui le colate laviche dipingono fantasiose armonie sulla ruvida pelle del tempo, in lampi di rossi elettrici che potrebbero essere frammenti di un film sperimentale o di una psichedelica installazione di visual art. I Krafft sono sempre lì, a sfidare impavidi il limite kantiano oltre il quale il sublime cede terreno al terrore, e non esitano a farsi riprendere in posa oppure nell’atto di simulare gesti e azioni entrando in più di un momento nella sfera dell’autorappresentazione (Maurice con pipa e berretto alla Jacques Cousteau), mentre la realtà dell’evento naturale incombe su di loro (la sequenza della partenza dall’isola Una-Una, quando Katia inscena la partenza dall’isola con il vulcano sul punto di eruttare realmente). Ma è anche attraverso questi momenti di sincera finzione che i due cineasti elaborano il loro punto di vista. A un certo punto, la voce di Herzog si sofferma con divertimento su una parentesi di svago della coppia, mentre un uomo alle spalle di Maurice finge goffamente di evitare una roccia scagliata blandamente da un compagno di viaggio fuori campo. Altrove, Katia simula più volte di venire colpita da un getto di vapore bollente. Sono lampi di cinema di illuminante ingenuità, in cui però, da un approccio ancora “turistico” ma già estraneo al rigore del documento scientifico, affiora in embrione la mutazione in atto del loro punto di vista che ha portato alle inquadrature più mature e stupefacenti dei vulcanologi, in cui le figure umane si stagliano spesso sullo sfondo delle forze naturali nel loro cieco ribollire privo di compassione. Per dirla in altro modo, sono frammenti in cui traspare ancora una volta come l’interesse di Herzog non sia rivolto al dato in sé, alla superficie di ciò che si vede, quanto ai segni profondi che vi si annidano. Si tratta di suggestioni perfettamente in linea con la poetica di un autore per cui la natura meno di tutto è interessata a comunicarci alcunché e nulla ha da dirci dal canto suo, se non in relazione a un punto angolare capace di osservarla facendone emergere la verità estatica. Appunto, l’Universo non conosce sorriso alcuno o, per citare un altro celebre punto della Dichiarazione del Minnesota, dovremmo tenere a mente che «la Luna è ottusa».
Incalzati da un fuoco che pulsa nelle profondità dello spirito, i Krafft hanno infine raggiunto con le loro visioni impossibili questa verità estatica, catturando una natura leopardianamente ottusa, in un viaggio fino al punto cieco e irriducibile dell’immagine, il cui inevitabile epilogo non poteva che coincidere con una dissoluzione del filmante nell’ineffabile realtà filmata. Questo potrebbe suggerirci Herzog, in modo non troppo dissimile da quanto accadeva in Grizzly Man, quando nel finale di The Fire Within il regista si muove a caccia di quell’ultima immagine che possa avere catturato il tragico destino dei Krafft. Herzog sembra averla trovata ma non rimane che l’ipotesi di un frammento sfocato, due punti rossi che potrebbero essere i vulcanologi al limitare del fuori campo, in lontananza, per pochi frammenti di secondo, in un paesaggio già sul punto di dissolversi nella bruma che appiana le profondità e in cui tutto sembra confondersi, poco prima che la nube esalata dal Monte Uzen inghiotta definitivamente la realtà circostante assieme ai due coniugi. Sarà romantico, ma tutt’altro che stucchevole, leggervi la parabola herzoghiana di due visionari che, raggiunto il punto estremo concesso ad occhio umano per scovare la verità profonda delle cose, hanno finito con il rimanerne assorbiti per sempre. A noi, restano così le loro immagini al limite dell’incredibile che mai dischiuderanno del tutto i loro segreti, perché in esse, come nella realtà più profonda, c’è sempre qualcosa che sfugge al nostro sguardo, mostrandosi e ritraendosi come sul fondo di un terreno instabile.
Mentre scorre uno dei frammenti più visionari girati dai Krafft, dopo aver tentato di descrivere la colata lavica che vediamo, Herzog si arrende all’insufficienza delle sue parole di fronte a quel prodigio. «Lasciamo che siano le immagini a parlare», dice. Ci sono immagini di cui è impossibile parlare. Vanno viste, per quanto ci sia concesso farlo soltanto con i nostri poveri occhi mortali.