Whiplash: il silenzio assordante
Analisi musicale di un western giocato a colpi di cassa e rullante, in cui la musica lascia il posto all'ossessione
Con Whiplash di Damien Chazelle ci troviamo di fronte ad una sorta di caso limite nell’analisi della musica per film, e più in generale della dimensione sonora dell’arte cinematografica. Con i tanti altri film dedicati alla vita di musicisti, realmente vissuti o immaginari, Whiplash condivide la necessità di confrontarsi col problema di trasformare la musica da oggetto a soggetto della narrazione. Ciò che interessa è proprio il tipo di risposta che Chazelle trova a questo problema: una risposta che, osservata attentamente, traccia uno spaccato tutt’altro che piacevole della società contemporanea.
Come è noto, il film, ambientato ai giorni nostri, racconta del burrascoso rapporto fra Andrew, un giovane aspirante batterista jazz, e Terence Fletcher, inflessibile direttore di big band che è stato fin da subito paragonato al personaggio del sergente Hartman di Full Metal Jacket. La musica è dunque motore interno delle vicende narrate, e una prima risposta che Chazelle trova al problema della sua soggettivizzazione è quella di ritrarre musicisti che suonano e/o si esercitano, soli e/o in ensemble. Di riprendere i loro corpi che si fondono col corpo dei rispettivi strumenti. Le inquadrature si concentrano in maniera quasi ossessiva sui muscoli degli arti in tensione, il sudore, il respiro concitato, i calli che si trasformano in piaghe sanguinanti. E tutto ripreso molto da vicino. La logica conseguenza è che il corredo sonoro di queste immagini sia composto da suoni certamente strumentali e musicistici, ma non propriamente musicali. Brandelli di frasi ripetute in successione dalle diverse sezioni di una big band (solitamente composta da 4 trombe, 4 tromboni 5 sassofoni più basso, batteria, pianoforte, chitarra e vibrafono), esecuzioni d’insieme arrestate bruscamente da una mano che ruota velocemente nell’aria e si chiude a pugno, veri e propri esercizi di tecnica. Resa soggetto incarnato nei corpi sotto sforzo dei musicisti, la musica in qualche modo si disintegra, perde la sua capacità discorsiva. Nel confondere consapevolmente la causa – lo sforzo fisico del musicista – con l’effetto – il suono che si fa nota e diventa parte del discorso musicale – Chazelle realizza una sorta di ossimoro audiovisivo: il classico silenzio assordante. Tutto il film è pervaso di passaggi in cui dei suoni di strumenti musicali vengono espulsi dall’alveo dell’espressione artistica, non importa se di provenienza diegetica o extradiegetica, ma non riescono a finire sul fondo, ad entrare nella dimensione rumoristica insieme agli altri suoni di ambiente, poiché l’accento visivo è sulla loro causa, la fatica fisica, ed essa ha un preciso valore simbolico nella narrazione.
Dunque Whiplash è un film di argomento musicale che non ha intenzione di riflettere sulla dimensione linguistica della musica. O meglio in questo film la musica non è rappresentata come un linguaggio, ma come una sorta di avatar, di corpo che dà consistenza fisica al vero oggetto della narrazione: l’ossessione. L’ossessione di Andrew per il suo strumento e per il suo insegnante, l’ossessione di Fletcher per la sofferenza fisica e per la perfezione; l’ossessione del successo, della vittoria schiacciante sull’avversario, diffusa e condivisa da tutti i personaggi del film (in termini negativi persino dalla "umile" ragazza di cui Andrew si infatua).
Tuttavia vi sono, ovviamente, altrettanti momenti in cui almeno formalmente la musica appare nella sua dimensione cinematograficamente naturale. Lo score firmato da Justin Hurwitz può essere infatti sommariamente suddiviso in diversi filoni. Il primo è costituito proprio da alcuni dei passaggi sonori a-musicali sopra descritti. Sembra quasi che si chiuda un cerchio: i suoni strumentali perdono la loro musicalità durante la visione del film per poi riacquisire valore di composizione venendo inseriti come singoli brani nella track list dell’album ufficiale Whiplash: Original motion picture soundtrack, prodotto dalla Varèse Sarabande. Il secondo filone è costituito da standard preesistenti al film stesso (in campo jazzistico uno standard è un brano divenuto tanto noto da poter essere suonato nel corso di una jam-session), come Caravan di Duke Ellington e Intoit di Stan Getz. Il terzo gruppo è rappresentato da ben 8 brani jazzistici originali, due dei quali composti da Tim Simonec, noto orchestratore e arrangiatore di musica per cinema, che viene citato nel film da Fletcher all’inizio della scena finale, quella della resa dei conti. Queste composizioni si ispirano a stili differenti, dal latin jazz al Kansas City, ma hanno tutti in comune una certa "pulizia" esecutiva, la quale, dato l’orizzonte musicale in questione, ha un pungente retrogusto di "artificiosità". Nel complesso questi brani mettono insieme una panoramica musicale estremamente interessante dal punto di vista antropologico, poiché in esse è racchiusa l’idea di musica (specificamente di jazz) che è, nel bene e nel male, alla radice dell’opera stessa di Chazelle. Per descrivere questa idea di jazz è però necessaria una precisazione.
Il jazz e la sua resa cinematografica sono diventati, a partire già almeno dagli anni ’90, un argomento delicato. Quando si parla di jazz, si parla di uno dei prodotti più tipici e autoctoni della cultura statunitense. Un oggetto musicale multiforme estremamente difficile da isolare, poiché l’espressione si riferisce contemporaneamente ad una metodologia compositiva, una determinata logica formale (quella dell’alternarsi fra temi e improvvisazioni), una prassi interpretativa (fortemente incentrata sul ritmo, da cui il nome di swing), uno specifico gusto armonico (nel quale il concetto di dissonanza, cruciale per il linguaggio musicale occidentale fin dai suoi albori secenteschi, ha trovato una nuova declinazione), ma anche ad un preciso clima politico e sociale. Questa musica nata nei ghetti afroamericani, prima e dirompente forma di riaffermazione di un’identità culturale che ha saputo resistere a secoli di schiavitù e discriminazione, si è dovuta confrontare diverse volte, nel corso del suo primo secolo di esistenza, con la cultura ufficiale dell’America bianca, e con la sua potentissima industria culturale. Dopo una prima fase di opposizione profonda il jazz ha iniziato a trovare estimatori ed alleati nella classe dominante americana, già a partire dagli anni ’20. Il cinema, e in seguito la televisione, ha dato un enorme impulso al fenomeno, trasformando questa musica in un prodotto altamente commercializzabile, e dunque favorendone la diffusione. Tuttavia, parallelamente a questo suo processo di istituzionalizzazione eterodiretta, il jazz ha continuato a rappresentare il veicolo preferito della cultura afroamericana per autodeterminarsi, cosicché ad ogni tentativo di addomesticamento di un particolare stile da parte della cultura mainstream si è opposta la nascita di una nuova concezione jazzistica, in un altalenare che è durato ancora fino a tutti gli anni ’80. In estrema sintesi si può dire che il be bop nacque negli anni ’40 come risposta politica e polemica al jazz della cosiddetta Swing Era, nella quale accanto alle grandi orchestre come quelle di Duke Ellington e Count Basie, esempi luminosi di un fare musica innovativo, colto ed appassionato, era fiorita una solidissima industria di produzione di "swing di consumo", con cui imbellettare pellicole cinematografiche di ogni genere, spot e trasmissioni radiofoniche, che tradiva completamente il senso profondo di questa musica. Il cool jazz, e poco dopo l’esperienza modale e il latin jazz, giunsero un decennio più tardi per superare l’impasse che il be bop, con la sua diffusione dirompente, si stava trovando ad affrontare. L’avvento del jazz rock e della fusion, negli anni ’70 rappresentò un’ulteriore tentativo di rifornire di contenuti musicalmente e politicamente rivoluzionari la scena jazz, la quale nel frattempo si era talmente allargata (travalicando i confini nazionali e divenendo un termine di paragone imprescindibile per tutta la musica occidentale e non solo), da essere divenuta oramai impossibile da rappresentare nella sua interezza. A cavallo tra anni ’80 e ’90 è stato l’incontro con la cosiddetta world music a risultare il più proficuo per il jazz. Oggi si ha l’impressione che le diverse caratteristiche fondamentali che, nonostante i decenni e gli stili succedutisi, continuano ad identificare chiaramente il jazz, si siano disciolte e fuse coi patrimoni genetici di tutte o quasi le diverse culture musicali umane, al punto da far vacillare la propria autonomia.
Proprio in ragione di questa complessità il jazz è un argomento delicato, specie quando finisce sul grande schermo. Il cinema americano che filma il jazz compie sempre un’azione particolarmente significativa di autorappresentazione: è l’America nuda che si fa un autoritratto.
Per questa ragione è così importante tentare di definire l’idea di jazz di Chazelle, e l’immagine del jazz che Whiplash restituisce. Gli otto brani di Hurwitz e Simonec, con la loro "pulizia" tradiscono la loro afferenza ad una concezione del jazz conservativa e muscolare, istituzionalizzata nel senso più sterile del termine, ad una tecnica produttiva piuttosto che ad un linguaggio espressivo, che finisce per fare del jazz un freddo sinonimo di padronanza assoluta del proprio strumento. Se non sai eseguire una quintina di sedicesimi in levare su un tempo in 7/4 portato a 280 bpm di metronomo, non sei un vero musicista... Questo aut aut risulta particolarmente pressante per la figura del batterista, dato che la prima e maggiore innovazione che il jazz ha prodotto nella musica occidentale sta proprio nell’estetica del ritmo e della sua interpretazione strumentale. Perciò tutta questa pulizia sa di artificiosità, ed è forse per questo che Whiplash si è già attirato tante critiche dagli estimatori più onestamente puristi del jazz. A maggior sostegno di questa tesi, come nota il critico musicale del New Yorker Richard Brody, nella sua stroncatura del film[1] , fa riflettere il fatto che l’idolo musicale del giovane Andrew sia Buddy Rich, personaggio tutt’altro che centrale nella storia del jazz e ben più votato allo show business e alla carriera televisiva che non alla batteria. Un altro indizio sull’idea di jazz che il film ricostruisce. Francamente però, più che schierarsi decisamente contro la rappresentazione di questa idea, è interessante accettarne la provocazione, dare per assodata l’esistenza concreta, corporea, di questo specifico ritratto cinematografico, e chiedersi se Chazelle non abbia colto nel segno. Se davvero oggi come oggi del jazz non sia rimasto che questo. Il panorama liquido e nebbioso delle produzioni jazzistiche contemporanee non aiuta a trovare una risposta a questa inquietante domanda.
Come già accennato, questo film non intende esprimere un punto di vista sulla musica: l’occhio del regista rimane puntato sull’ossessione di Andrew, e sul suo processo di lievitazione. La musica fornisce il pretesto per l’esplosione iniziale, ed è il terreno su cui si svolge l’azione: il campo di battaglia. Come nota su queste pagine Matteo Berardini, Whiplash è un western, la storia di un duello fra due monadi di carica uguale e contraria. Tutto ciò che non è strettamente, fisicamente, legato a questo scontro fatale viene appiattito sullo sfondo, diventa scenografia. E proprio alla scenografia si può riferire il quarto ed ultimo blocco in cui è possibile suddividere lo score del film, basato su dieci brani originali di Hurwitz, di durata variabile ma nel complesso piuttosto ridotta, tutti caratterizzati dal medesimo principio compositivo. È lo stesso compositore ad illustrarlo nelle note di copertina dell’album ufficiale[2] . Di fronte alla necessità di identificare uno stile compositivo che si adattasse ad un film già tanto pieno (sic) di jazz, e permettesse di produrre tutti gli interventi musicali extradiegetici necessari all’economia dell’opera, la scelta dell’autore è stata quella di prendere in prestito la struttura formale dei suoi brani dalla musica elettronica, e la tavolozza timbrica dal jazz. In questo modo egli ha costruito, con la logica della stratificazione e dello sviluppo lineare, degli impasti sonori cupi, vibranti e cangianti, sottilmente disumani poiché risultano da un lavoro di ripresa ed elaborazione eseguito quasi in stop motion sulle singole note, prodotte in origine da strumenti e musicisti "veri". Per prevenire gli onesti puristi di cui sopra va subito detto che non c’è veramente nulla di jazzistico in queste composizioni. Tuttavia il sentimento di angoscia e tensione che questi brani, invariabilmente, producono si incontra perfettamente col lento e inesorabile scivolare di Andrew nella sua ossessione, e dunque va riconosciuta abilità e senso di misura al lavoro di Hurwitz.
Va infine fatta un’ultima riflessione su Whiplash e su un suo significato audiovisivo solo apparentemente secondario. Come si è detto, questo film tocca la musica solo in funzione del suo essere soggetto partecipante alla narrazione dell’ossessione, e dunque non dichiara alcun intento storiografico (salvo poi, suo malgrado, esprimere comunque un punto di vista sull’argomento). Allo stesso modo, nel portare sullo schermo il duello fra Andrew e Fletcher, fra allievo e maestro, Chazelle pone le basi per una riflessione sulla didattica musicale, sui suoi metodi e i suoi obiettivi: nello specifico quello di scoprire fra i tanto mediocri allievi l’Eletto, colui che si candida alla perfezione. Il nuovo Charlie Parker.
Va subito detto che gli Stati Uniti sono uno dei luoghi nei quali si è fatta maggiore sperimentazione e innovazione nel campo dell’educazione musicale, incrociandola con i risultati degli studi sulla percezione, con l’antropologia, con la pedagogia e lo studio dei processi di apprendimento. Ne è risultato un vivace movimento intellettuale che fin dagli anni ’60 del secolo scorso si è legato a doppio filo con altre simili esperienze provenienti dall’Europa e dall’America Latina, ed è penetrato profondamente nel tessuto culturale occidentale. Si tratta in tutti i casi di punti di vista olistici, che mettono l’individuo al centro del processo di apprendimento, e che considerano la musica un linguaggio utilizzabile per esprimere specifici contenuti, e l’educazione musicale come azione volta a stimolare nelle singole individualità dei discenti (tipicamente si pensa al bambino) il pensiero musicale, cioè la capacità di concettualizzare ed esprimersi in termini musicali. In sintesi, le teorie e soprattutto le metodologie di educazione musicale messe a punto da Edwin Gordon – così come, al di qua dall’oceano, quelle di Karl Orff, Zoltan Kodàly e Maria Montessori, solo per fare i nomi di maggior rilievo – sostituiscono al concetto di insegnamento (dal latino in-signare: segnare dentro, fissare) quello di educazione (da ex-ducere: condurre fuori, far emergere). Ora, se si corre con la memoria all’immagine di Fletcher che schiaffeggia ritmicamente Andrew per "spiegargli" la differenza che c’è fra correre e rallentare (in termini più propriamente musicali: fra interpretare un ritmo anticipando leggermente la pulsazione, o ritardandola), si ha l’impressione di trovare, inaspettatamente, il grottesco nell’opera di Chazelle. Ogni parola e gesto che i due avversari si lanciano contro sembra estremamente caricato, troppo eccessivo per non essere voluto. Da qui potrebbe evolversi una complessa rete di fraintendimenti sul film, poiché si può essere portati a pensare che, in linea con l’utilizzo inespressivo e destrutturato dei suoni musicali (specie di quelli diegetici), utile ad accrescere il senso di tensione che accompagna la crescita dell’ossessione di Andrew, anche il livello altissimo di irrealismo con cui viene dipinto ed agito il rapporto fra allievo e maestro serva ad evitare qualunque sovrapposizione di elementi secondari al solo ed unico oggetto della narrazione. Così come Chazelle riduce buona parte della musica a pura scenografia, allo stesso modo il rapporto allievo/maestro viene appiattito e relegato alla funzione di innesco della reazione, basandosi su tutta una serie di ingiurie e provocazioni fisiche che i due si scambiano quasi meccanicamente. La teoria sembra funzionare: il film è solo un film sull’ossessione che divora l’uomo, e se al posto delle bacchette e dei tamburi ci fossero una fiocina ed una balena bianca, questo sarebbe una sorta di prequel di Moby Dick.
Ad aggiungere però un elemento dirompente è lo stesso Chazelle, che intervistato da Paolo Giordano per il Corriere della sera[3], racconta della forte cifra autobiografica che egli ha dato alla scittura di Whiplash. Si viene così a sapere che Chazelle ha iniziato la sua carriera artistica proprio studiando la batteria. Che ha dovuto confrontarsi con insegnanti dai metodi a dir poco discutibili. Che ricorda ancora con un certo timore la tensione continua e la spietata competizione verso cui veniva spinto da un’istituzione formativa unicamente guidata dalla logica del mercato, con un solo ed ossessivo scopo: produrre musicisti mostruosi, totali e assoluti, capaci di battere l’avversario (l’altro musicista) ed eliminarlo. E per questo allevati come calciatori, o cani da combattimento, e considerati alla stregua di prodotti di lusso da vendere sul mercato dell’industria discografica. Persino il brano che dà il titolo al film, Whiplash di Hank Levy (sassofonista, arrangiatore e pioniere dell’insegnamento accademico del jazz), stimola ricordi precisi nel regista, che si rivede seduto in orchestra accanto al batterista di ruolo, a sfogliare timoroso le pagine dell’arrangiamento di questo brano, ritmicamente complicatissimo. Insomma è tutto vero. Ecco che la teoria interpretativa del grottesco crolla definitivamente, e ciò che appare dietro le sue rovine non è un bello spettacolo. Come nel caso del tipo particolare di idea di jazz che il film comunica, ancora una volta non è tanto importante schierarsi pro o contro la visione militaresca dell’educazione musicale che esso mostra, ovviamente distruttiva e controculturale. Bisogna confrontarsi con la realtà, ed in questo caso col realismo, di questo film così difficile da far rientrare in una specifica categoria.
Anche qui viene da chiedersi se Chazelle non colga davvero nel segno, utilizzando la musica, il suo apprendimento, i luoghi e le persone coinvolte nel processo, per parlare dell’ossessione divoratrice di uomini pensata dagli uomini stessi: l’ossessione per la vittoria, la sopraffazione del debole, l’affermazione violenta del proprio potere sui propri simili. Insomma alcune delle cifre che maggiormente caratterizzano le nostre società attuali, il cui logo a stelle e strisce è un luogo comune oramai inefficace, e che sembrano rinverdire in proporzione diretta con l’aumentare del senso di smarrimento e di paura (non sempre e non solo costruiti mediaticamente) che ogni uomo può a buon diritto provare di fronte al proprio presente storico. Quanto più si scioglie il senso del collettivo, dell’appartenenza di ogni persona ad un tutto culturale che è più della somma degli individui che lo compongono, tanto più è necessaria l’ideologia della sopraffazione. Serve per garantire la sopravvivenza della specie. È la dura legge della natura, quella che l’uomo riesce a contrastare solo sporadicamente, e in un processo evolutivo che oggi sembra troppo mostruosamente lento. Chazelle, col suo western di ambientazione conservatoriale, apparentemente indifferente al presente storico in cui è immerso, rende conto di tutto ciò in maniera estremamente lucida e asciutta, attraverso uno sguardo che sa incorporare l’ingenuo candore di un bambino e lo sguardo amaro del profondo conoscitore della propria cultura. É proprio il caso di dire: good job.
[1] http://www.newyorker.com/culture/richard-brody/whiplash-getting-jazz-right-movies
[2] http://www.whiplashsoundtrack.com/
[3] http://www.corriere.it/scuola/universita/15_gennaio_30/dittatura-maestro-9f227446-a88b-11e4-9642-12dc4405020e.shtml
Whiplash: track list
"I?Want To Be One Of The Greats"
1. Snare Liftoff [Dialogue] (:43)
2. Overture (3:19)Written by Justin Hurwitz
3. Too Hip To Retire (3:03) Written by Tim Simonec
4. Whiplash (1:55) Written by Hank Levy
5. Fletcher’s Song In Club (1:28) Written by Justin Hurwitz
"If You Want The Part, Earn It"
7. "What’s Your Name" [Dialogue] (1:30)
Written by Justin Hurwitz
9. Invited [Includes Dialogue] (0:54)
Written by Justin Hurwitz
10. Call From Dad (0:40)
Written by Justin Hurwitz
11. Accident (5:21)
Written by Justin Hurwitz
12. Hug From Dad (1:19)
Written by Justin Hurwitz
13. Drum & Drone (1:34)
Written by Justin Hurwitz
14. Carnegie (0:36)
Written by Justin Hurwitz
15. Ryan / Breakup(:31)
Written by Justin Hurwitz
16. Drum Battle (2:21)Written by Justin Hurwitz
17. Dismissed (2:51) Written by Justin Hurwitz
"He Was A?Beautiful Player"
18.“Good Job” [Dialogue] (1:28) DIALOGO
19. Intoit (3:19) Written & Performed by Stan Getz
20. No Two Words (1:41) Performed by Nicholas Britell and Justin Hurwitz, Produced by Nicholas Britell, written by Justin Hurwitz
21. When I Wake (3:50)Produced by Nicholas Britell Written by Justin Hurwitz
22. Casey’s Song (1:57) Written by Justin Hurwitz
23. Upswingin’ (2:12) Written by Tim Simonec
24.Rehearsal Medley: First Nassau Band Rehearsal / Second Nassau Band Rehearsal /Studio Band Eavesdrop / Studio Band Rehearsal After Breakup (1:34) Written by Tim Simonec