Presentato a Venezia nel 2009, White Material è l’ultima opera della regista francese Claire Denis dedicata all’Africa, sua terra natale. Il film è l’ennesima opera apprezzata dalla critica mondiale che non ha trovato una sua distribuzione in Italia.
Ciò che colpisce immediatamente in è la straordinaria interpretazione di Isabelle Huppert. L’attrice si fa forza trainante di una pellicola che si articola in dettagli e contrasti. Protagoniste indiscusse sono infatti le mani dell’attrice francese, il suo volto pallido e scarno, le pieghe degli abiti color pastello, i capelli incolti e pericolosi, di un biondo prezioso come l’oro della sua collana di farfalle (come ci dirà uno dei personaggi, il sindaco nero della cittadina: “Il biondo porta sfortuna, gli occhi blu portano guai”).
White Material narra l’insorgere di una rivolta in un paese dell’Africa centrale, in cui la popolazione di colore si ribella contro il potere esercitato dalle ricchezze dei bianchi. In questo scenario troviamo Marie Vial (Isabelle Huppert), moglie del proprietario di una piantagione di caffè. Donna intrepida e testarda, incurante dei disagi e del pericolo, Marie vuole a tutti i costi portare a termine il raccolto. Questo nonostante la guerra civile sia alle porte e la vita scorra tutt’altro che tranquilla tra minacce e posti di blocco di ribelli armati. Lei sola non vuole fuggire. Dimostra un attaccamento profondo a una terra che sente sua, anche se il paese “non la ama”. Il coraggio mostrato da Marie si tramuta però molto rapidamente in ostinata cecità, alimentata forse da una profonda fiducia nell’altro. Marie svolge i suoi gesti quotidiani, indossa i suoi abiti e i suoi gioielli. Crede che alla base dell’uguaglianza non ci sia un’omologazione ma piuttosto la capacità di convivere pacificamente all’interno della propria diversità. Diversità di pelle, di abiti, di gioielli e di ricchezze. Non si cura dei beni materiali; questi fanno parte del suo essere. Gli oggetti caratterizzano la sua quotidianità, segnando inevitabilmente un’ulteriore distanza sociale con la popolazione nera. Quegli stessi oggetti danno il titolo al film: White Material si riferisce infatti a tutti quei beni materiali posseduti dai bianchi.
Nel film si percepisce una tensione crescente. Il pericolo è alle porte ma rimane invisibile, taciuto, mai del tutto esplicitato. La violenza è racchiusa in una cornice bella e curata, la fotografia impeccabile del film e il rossetto di Marie. Marie che non vede o non vuole vedere l’odio insorgente di un intero paese soggiogato da un potere estraneo. La medesima dinamica è proposta nel rapporto che Marie ha con il figlio ventenne Manuel (Nicolas Duvauchelle). Ferito, Manuel si raderà i capelli a zero, quegli stessi capelli biondi, e ne costringerà una manciata in bocca a una donna nera. Il gesto vuole forse rimarcare la forza soffocante di un potere, l’amore di una madre incapace di comprendere, che l’ha tenuto prigioniero. Manuel si tramuterà in un “cane” spietato, dando sfogo a una violenza animalesca e priva di scopo.
L’Africa raccontata da Claire Denis è carica di meraviglia e orrore. Gli splendidi panorami africani e il lato oscuro del paradiso fan da teatro a un film ricco di spunti, ma che fatica a coinvolgere. Se la sua forza è nel non-detto, infatti, la sua debolezza è nella confusione di ciò che è raccontato. I comportamenti di Marie rimangono avvolti da un’aura di mistero e domande sospese. I frammenti non ricompongono un’immagine unitaria. Il ritratto è incompleto e tutto nel film rimane inesorabilmente in secondo piano, distante da chi lo osserva al di là dello schermo.