Wolf Creek 2
L'assassino torna sempre sul luogo del delitto.
Greg Mclean, legato al successo del suo primo lungometraggio, è rimasto con i piedi ben saldi sul maledetto suolo d’Australia, e si lancia senza paura alcuna in un discorso sul senso del cinema del suo Paese e di come esso rappresenti le istanze di una nazione in bilico tra forze contrastanti.
La trama, come già nel primo Wolf Creek, è subdolamente costellata di cliché destinati ad essere frantumati, questa volta con un’intelligente ironia nei confronti dei (primi due) protagonisti. Rutger e Katarina sono due turisti tedeschi, giovani, belli, innamorati. E’ l’istinto di giovinezza che li porta ad addentrarsi verso la riserva naturale di Wolf Creek, ed è quello stesso istinto che li porterà ad incontrarsi con il delizioso Mick Taylor.
Dopo quasi dieci anni di vuoto, intervallati dal solo e dimenticabile Rogue (2007), Mclean prende il bue per le corna, fa del suo serial killer l’archetipo dei conflitti sociali e psicologici dell’essere australiano. L’impressione generale, analizzando il cinema di genere, è che la contemporaneità stia affrontando un discorso tematico che quello statunitense aveva risolto negli anni ’70. L’esegesi del on the road e del western della disillusione, ha affermato il successo di John Hillcoat e David Michod, i Ford e Peckinpah d’Oceania. Mclean, già si sapeva, pare avere una spiccata passione per il mito degli Hooper e dei Craven. La Natura è malvagia? No, ovvio, il male della Natura è il male di chi la abita: Mick Taylor è il rancore secolare dell’immigrazione forzata dei secoli precedenti, portatore dell’odio nei confronti dell’ultimo erede del colonialismo occidentale: quello culturale, turistico, dei giovani appassionati del selvaggio. Questo è l’istinto, quello che filtra dagli occhi dell’ultimo dei provinciali d’Australia.
Bisogna quindi riconsiderare anche il senso della wilderness. La Natura non ha vita, Wolf Creek è un deserto arido, soffocante, semplicemente dimenticabile. Non ha la magia nera dei deserti affollati dagli spiriti degli indiani d’America, non ha quel connubio tra droghe e ulraterreno vissuto ad esempio, con prepotenza, nel recente True Detective. Non ha nemmeno l’epica scheletrica della Death Valley. Ed è qui che scaturisce il confronto con l’originale Non Aprite Quella Porta di Hooper, nella rappresentazione del male come conseguenza di un isolazionismo forzato, dove l ’assenza di civiltà scaturisce gli istinti malvagi dell’essere umano. Un simbolo più sfacciato, ma inevitabilmente sagace, è quello del tir, che Mick Taylor utilizza per inseguire e sfracellare le proprie prede. L’ammasso di metallo fumante è la metafora on the road per eccellenza del senso di isolamento, e non si può non pensare, almeno per un attimo, al Duel di Spielberg ed ai suoi pionieristici inseguimenti.
L’impressione è che rispetto al primo film sia mancata l’originalità registica e dei movimenti della MdP che sapevano di new horror nel già lontano 2005 e che ne assicurarono l’etichetta di cult, ma che Mclean abbia dato questa volta più peso, fino al grottesco quiz finale a la Chi Vuol Essere Milionario, ad un senso di smarrimento di genere, di voler far danzare un’estetica splatter brutale con uno scambio di dialoghi sulla soglia della comicità. Il risultato è altalenante, ma la curiosità di scoprire come si evolverà il cinema di Mclean, se succederà, è tanta.