Wormwood
Il ritorno e debutto su Netflix di Errol Morris
La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare.
Apocalisse 8: 11- 13
Il 1988 è l’anno di un meraviglioso film-saggio legato a doppia mandata sia al neo-noir che alla definizione archetipica del docu-drama: stiamo ovviamente parlando di The Thin Blue Line di Errol Morris. A trent’anni da allora il regista di New York, uno dei migliori sguardi illuminanti delle zone d’ombra, torna a sollevare il sipario su di un fatto di cronaca per certi versi inesprimibile e inenarrabile.
La storia di Wormwood segue le vicende trascorse la notte del 28 Novembre del 1953, nella stanza 1018 di un hotel di Manhattan, dove dalla finestra del 13° piano, cade lo scienziato Frank Olson in circostanze assai misteriose. Olson, padre di una famiglia che cercherà negli anni soluzione all’enigma della sua morte (in particolare Morris racconta l’ossessione del figlio Eric per la verità), era un chimico che lavorava per l’esercito americano, impegnato insieme ad altri scienziati nel progetto top secret denominato MKUltra.
Siamo nel cuore della Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono impegnati nella Guerra di Corea, nel territorio statunitense la paura verso il comunismo genera un sistema di controllo (maccartismo) che tiene sotto osservazione sia i normali cittadini che le cariche statali, adottando un’epurazione spietata che non risparmierà nessuno. La divisione di cui faceva parte Olson sperimentava nel campo della guerra batteriologica, oltre ad essere impegnata nella sperimentazione di sostanze psicotrope (LSD) in campo militare, sia come tecniche di spionaggio che condizionamento.
Netflix, che ha già prodotto e distribuito due serie d’indagine documentaria, con esiti alterni, come l’apprezzato Making a Murderer e il meno riuscito The Keepers, ingaggia Morris e gli lascia carta bianca, strategia questa già adottata, e vincente, per le diverse autorialità che produce.
Morris riesce nel bilanciare perfettamente due registri stilistici complementari: la parte documentaria e la parte di messa in scena finzionale. Quest’ultima, ispirata stilisticamente alla paesaggistica umana ed urbana del tratto di Hopper, assume un punto di vista soggettivo nel descrivere lo stato d’animo di Olson, interpretato da uno paranoico, spaventato e lisergico Peter Sarsgaard, senza esagerare mai ed evitando di scivolare nella caduta - nel delirante - di una rappresentazione visiva onnivora legata allo stato alterato di coscienza del protagonista. L’allucinazione, il meccanismo dell’inconscio alterato, non concentra, con movimento centripeto, la focale su di se tanto da attrarre unicamente l’attenzione dello spettatore, dissolvendo così la più concreta narrazione ducumentaristica. Straniante particella finzionale e soggettiva, è l’LSD, che nella rappresentazione inghiotte Olson dentro ad un tempo ed uno spazio indefinito, labirintico, come possono essere i corridoio di un hotel, ad avere un peso onirico ben bilanciato; oltre a possedere un retrogusto amaro simile all’assenzio del titolo, e una forza deflagratrice come il nome della stella biblica portatrice di distruzione per il genere umano nella citata Apocalisse.
Partendo da un enigma che si svolge all’interno di una stanza chiusa, attraverso determinate coordinate spazio-temporali, Wormwood racconta una storia che non può avere una conclusione ben definita, in quanto resoconto di un fatto secretato in nome della sicurezza nazionale americana. Morris traccia il confine tra il raccontabile e l’inenarrabile, confine che combacia con il muro di gomma alzato dalla CIA rispetto a determinati esperimenti mortiferi e, umanamente, biasimabili. Non arriva quindi a rubare la verità dietro l’enigma, come quella sfuggita a Robert Durst nel meraviglioso finale di The Jinx di Andrew Jarecki per HBO, in quanto oltre il sipario non si può accedere. Luogo questo di verità impronunciabili, di fonti certe ma non certificabili, di ignote gole profonde, luogo non-luogo dove anche la narrazione è costretta ad inabissarsi.
Wormwood è la tesi stilistica di un grande autore americano che si spinge fin dove la verità cessa di esistere, al di là della quale solo la Storia secretata - inesprimibile - è contenuta. C’è del marcio in Danimarca, costatava Marcello ad Orazio nell’Amleto, del marcio amaro come l’assenzio, amaro come un finale inqualificabile, appannato, indefinibile. La tragedia shakesperiana è il contrappunto ideale di Wormwood, lo stesso Morris lo dichiara fissando la caratterizzazione dei personaggi sulle immagini cinematografiche di Laurence Oliver, colonna vertebrale questa del docu-drama, ed obbiettivo conoscitivo di una furiosa ricerca della verità. Lo sguardo illuminante di Morris apre la porta di una stanza che non può illuminare, tracciando l’ingresso per un luogo coperto da un tendaggio che in pochi veramente vorrebbero attraversare: nella stanza dei segreti dove l’oscurità prende in ostaggio la verità. Un proscenio per uno spettacolo costruito intorno alla discrezione, dove si arriva ad essere minacciati dal sistema se non si è più in grado di dimostrare la propria lealtà e misura. Morris arriva sul limitare dell’ignoto (inter)nazionale, della Storia segreta, dell’inesprimibile e del prescrittibile, senza cadere, e senza essere spinto, oltre la finestra della verità. Resta nella stanza, riuscendo ad illuminare per un solo istante lo spazio dietro il feltro di copertura, ponendo il limite, avendone già tracciato la strada, della narrazione.