La favorita
Lanthimos inserisce la storia della lotta tra le due favorite di Anna Stuart dentro l'ennesimo teorema allegorico sul potere.
Spesso si attribuisce a Yorgos Lanthimos il merito (per qualcuno la colpa) di aver ispirato una generazione di giovani registi europei – di cui lui stesso fa parte – nel dare forma a un movimento cinematografico esteticamente ingabbiato in precisissimi canoni stilistici e formali. Costruzioni geometriche dell’immagine, movimenti di macchina iperbolici e calcolati al millimetro, inquadrature rigorose e programmate, uso e abuso del ralenti nelle più disparate situazioni, impiego della colonna sonora in chiave lirica e minimale, allegorie ermetiche che nascondono una serie di costrutti teorici sono solo alcuni degli elementi ricorrenti di un cinema sempre più diffuso e riconoscibile, ove nulla sfugge alla pianificazione del regista-demiurgo. Si tratta di una forma cinematografica a suo modo coerente, che spesso divide il responso di critica e pubblico, ma che trova nel sistema dei festival dell’ultimo decennio un’oasi quasi incontaminata. Poco importa, agli autori di questi film, se il confine tra ambizione e pretenziosità dell’opera che propongono rischia di diventare un terreno instabile e scivoloso: tanto vale rischiare di esser colpiti, di ritorno, da un cinema-boomerang che girovaga, senza meta, alla ricerca di se stesso, per poi tornare dritto in faccia al punto di partenza.
La favorita, presentato in concorso a Venezia 75, sembra inizialmente sfuggire da questa morsa. Innanzitutto, e questa è la prima notizia, Lanthimos dimostra di sapersi prendere poco sul serio, mettendo il cinismo, il sarcasmo e il consueto sentimento di superiorità nei confronti del genere umano al servizio di una tagliente black comedy, ambientata presso la corte della Regina Anna di Gran Bretagna, ultima sovrana della casata Stuart, regnante agli inizi del XVIII secolo. Secondo elemento di sorpresa: il consueto lavoro di sottrazione compiuto sui suoi personaggi, quasi sempre muti, immobili, catatonici e anaffettivi, viene riorientato da una sceneggiatura intelligente e articolata, scritta dall’esordiente Deborah Davis e dal più esperto Tony McNamara. Il regista greco, per la prima volta, non scrive un film che dirige: il tono che ne esce è senz’altro più leggero e dissacrante, distante dagli echi lirici e seriosi dei suoi film precedenti. Le tre attrici – Rachel Weisz, Emma Stone e, soprattutto, Olivia Colman – invadono la scena completandosi a vicenda, relegando inizialmente il regista a mero osservatore di un affare tra donne, su cui qualsiasi uomo – personaggio, spettatore, Lanthimos stesso – sembra avere poco margine di manovra.
Nella prima metà, tra battute irriverenti e intrighi politici di corte, c’è da dire che il film scorre. Lentamente, tuttavia, arrivano i primi acuti del regista, che tenta di ristabilire l’ordine gerarchico, mostrando ai suoi personaggi femminili chi è che comanda. Le inquadrature dall’alto verso il basso si fanno sempre più insistenti, accentuando, grazie soprattutto all’utilizzo del grandangolo, sia le proporzioni dei corpi femminili rispetto alla sfarzosità degli ambienti circostanti, sia il voyeuristico punto di osservazione maschile. I volti delle tre attrici, di contro, vengono quasi tutti inquadrati in primo piano, dal basso verso l’alto, quasi a risignificare uno sguardo fanciullesco che, intrufolato nel mondo degli adulti, fa fatica a comprendere cosa provano i personaggi, ancora una volta volutamente inaccessibili. Alla lunga, la ricorrenza programmatica di questo schema diventa insostenibile. Tanto che nella lotta tra Tories e Whigs per conquistare il potere, così come in quella tra Sarah e Abigaill per diventare la “favorita” della regina, finiamo per osservare in superficie, rigorosamente senza patteggiare, un gioco tra bambini in cui sembrano perdere tutti. Siamo improvvisamente diventati noi gli adulti e, senza accorgercene, siamo stati costretti ad aderire al punto di vista compiaciuto del regista. Nel finale, a ricordarci definitivamente chi è che comanda, Lanthimos ci propone la consueta metafora animalesca, sulla scia di aragoste e cervi sacri: il volto della regina Anna mentre viene masturbata da una “favorita” (una vera e propria ossessione del regista greco, quella della sollecitazione manuale degli organi sessuali) si dissolve nell’immagine dei diciassette figli che ha perduto a causa della sindrome di Hughes, animalizzati nella forma di diciassette conigli con cui ella stessa convive, giornalmente, dentro la sua stanza. Così, il teorema allegorico di Lanthimos entra a gamba tesa nella storia, sancendo l’inevitabile conclusione della dinastia Stuart.
Articolo in collaborazione con Cinema e Storia