Povere creature!
Il cinema di Yorgos Lanthimos trova un punto d'origine storico e teorico, che rende globalmente leggibile il proprio ottimismo antimoderno.
Di solito davanti alle posture d’autore la critica risponde con altrettante posture interpretative. Il cinema di Yorgos Lanthimos, per esempio, è stato etichettato come cinico quasi subito: freddo e formalista, ossessivo e soffocante tanto quanto lucido e perspicace nella messa in abisso del contemporaneo. Questa approssimazione teorica ha fatto poco bene alla comprensione dell’autore. Che a differenza dei veri cinici, teorici (Haneke) o performativi (von Trier), ha sempre tenuto nascosto dietro al pessimismo antropologico di facciata un inguaribile e romantico (se non reazionario) sentimento antimoderno, molto poco indifferente e quindi molto poco cinico. Lo si capiva da Il sacrificio del cervo sacro, dove il suo cinema rinveniva la tragedia dello sguardo contemporaneo nel legame di figliazione tra la cecità del pensiero scientifico (sempre più incapace di vedere il mondo oltre la propria ideologia) e quella del pensiero magico antiscientista (altro sguardo paradigmatico del nuovo millennio). E lo si capisce ancora di più in Povere creature! (Poor Things), sorta di prologo storico-teorico del suo cinema, in cui tutti gli elementi di poetica tornano e si compattano con un ordine e una lucidità mai così precisa (mai così aperta al grande pubblico, dopo l’esperienza di commissione de La favorita) per rivelare a gran voce (secondo un desiderio di riconoscimento globale probabilmente) la propria protensione all’ottimismo.
In linea con principi aziendali precisi – che appaiono chiari quando ci si ricorda che dietro al logo Searchlight Pictures in apertura ci sta ormai la Disney, garante di commerciabilità estensiva sulla piattaforma nominale –, il film si costruisce su un'esposizione poetica sintetica e retrospettiva, chiara e coerente con la leggibilità trasversale delle logiche industriali (come accade sempre di più anche con il biografare autoriale di Netflix), ma soprattutto avvicina la sua protagonista ai caratteri delle principesse disneyane contemporanee, interessate alla scoperta di sè, alla propria autodeterminazione sociale e all'evasione dalle rigide costrizioni del proprio mondo, o meglio del mondo istituito dai propri creatori e padroni. Bella Baxter (un’Emma Stone mai così compresa nella propria costitutiva eccentricità corporale) in questo senso incrocia il dramma del classico principesco isolamento con le vicende dei giovani protagonisti di Dogtooth, cresciuti nel perimetro wittgensteiniano di un mondo determinato dal linguaggio: anche lei è reclusa nella casa del dottor God (abbreviazione di Godwin, coerente con le smanie divine), nei circuiti chiusi del suo esperimento a variabili controllate, in un’unica legge di sviluppo cognitivo - quella che riconosce nel corpo una macchina puramente organica senza alcuna traccia di spiritualità.
Come evade Bella da questa ormai famigliare scatola ideologica scientista? L’evasione non consiste un una rottura del linguaggio - non sarebbe mai possibile nella prospettiva di Lanthimos (mai cosí identificabile, tra l’altro, come nel personaggio dello scienziato creatore), per cui tutta la realtà è sempre frutto di una combinatoria linguistica - ma piuttosto nella sua soggettivazione, nell'appropriazione delle sue regole ferree. Ecco allora che se il corpo è pura meccanica senza spirito, Bella scopre come farlo funzionare proprio come una macchina che produce piacere secondo la sua volontà. La scoperta è di genere sessuale, e anche l’emancipazione che ne segue: Bella passa da spasimanti tossici (che si scoprono presto dipendenti dalla trascinante autonomia del personaggio) ad altre criptiche figure di controllo (una matrona che la sfrutta tanto quando il dottor God), e piano piano interpreta l’appropriazione libertina del proprio corpo come il modo più scientifico per detenere i mezzi di produzione. L’ottimismo però, sotto l’evidenza esaltante del punto politico - la libertà sessuale apre le porte a una possibilità di socialismo –, nasconde la problematicità del movente – il sentimento antimoderno.
Perché Lanthimos applica la propria lente anamorfica all’epoca vittoriana – ventre molle dello scientismo contemporaneo, oltre che del capitalismo del nuovo millennio – e fa nascere da lì, ideale punto d’inizio storico-teorico del suo cinema, l’alternativa politica dettata da uno straniante e straniato corpo femminile (che fa partire una rivoluzione proprio negando i principi della moralità vittoriana, masturbandosi a pranzo). Ma attraverso precise e urlate scelte estetiche – come la contaminazione delle forme razionalistiche con quelle neogotiche (l’estetica romantica, premoderna e antirazionalista per eccellenza, polarmente distante dalla ragione promulgata dalla regina Vittoria) - rivela la debolezza del proprio arabesco concettuale, molto più vicino alla dimensione dell’ucronia fantastorica che a quella dell’utopia sociale e quindi all’attestazione di un’impossibilità storica più che di una possibilità rivoluzionaria. Come a dire che la presa di coscienza del soggetto è qualcosa in cui si può sperare con il sorriso a fior di labbra, ma che rimane fuori dalla Storia. Proprio come in un film Disney.