"Il silenzio" di Don DeLillo
Dopo il virus c’è la vera catastrofe: ritrovarsi a guardare uno schermo senza più immagine. È solo la fine del mondo.
Le cose semplici, descrittive: che fine avevano fatto?
Dopo il rumore bianco, il silenzio senza colore. Don DeLillo, a 84 anni, nel suo nuovo piccolo romanzo immagina lo spegnimento improvviso di tutta la tecnologia digitale: schermi, TV, computer, smartphone, e-mail. Il silenzio, appunto. Lo stesso titolo de Il silenzio di Ingmar Bergman, quello di due sorelle agli antipodi costrette in una città sconosciuta. E lo stesso de Il grande silenzio di Philip Gröning, documentario sui monaci certosini che hanno fatto il voto di non parlare. Silenzi diversi, tutto sommato affini, che dialogano tra loro. Ma il silenzio di DeLillo non è quello dell’uomo, bensì del mondo intorno da lui costruito, e non significa non parlare, anzi.
Al centro de Il silenzio (Einaudi, pagine 112, euro 14) troviamo cinque personaggi: Jim e Tessa, una coppia in viaggio su un volo per New York, Max e Diane, un’altra coppia, che li aspetta in casa in compagnia di Martin, studente di fisica ex allievo di lei, per vedere il Super Bowl. La storia è ambientata nel 2022: è stata scritta prima della pandemia di cui contiene un cenno, DeLillo non chiama la COVID-19 per nome, non ne ha bisogno. C’è solo questo: «Abbiamo ancora freschi nella nostra mente i ricordi del virus, della peste, delle code infinite nei terminal degli aeroporti, delle mascherine, delle vie cittadine completamente vuote». Perché il punto è un altro: arriva il blackout senza motivo. L’aereo è costretto a un atterraggio d’emergenza e il gruppo riunito per vedere la partita si ritrova davanti a uno schermo nero.
A quel punto lo scrittore americano allestisce un kammerspiel con brevi esterni, imperniato su due ambienti (l’aereo - la casa), passando fluidamente dal pensiero dell’una all’altra delle sue figure. E dal dialogo, che è il contrario del silenzio: Martin comincia a citare il manoscritto di Albert Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale, sua ossessione, sottolineandone la componente materica, la grana della carta e l’inchiostro delle lettere, riportando quindi alla sostanza tangibile dello “scritto a mano”, non a macchina né al computer. E lo stesso Einstein fu autore della famosa profezia sulla quarta guerra mondiale che, dopo la terza, verrà combattuta con pietre e bastoni. Il racconto omette l’esterno: quando Max azzarda l’uscita evita di riportare lo stato delle strade, possiamo immaginare un’apocalisse zombie della tecnologia, oppure una peste alla Edgar Allan Poe (d’altronde Diane chiama “peste” la SARS-CoV-2), ma senza la maschera della morte rossa, nessuno entrerà nella casa che, ecco il vero orrore, resta abbandonata a sé stessa. Al contrario dell’abitacolo della limousine di Cosmopolis, che per il miliardario Eric diventa oblò verso l’esterno, qui non si vede nulla, non abbiamo dati, restano occulti per noi e per i personaggi.
La chiave de Il silenzio infatti non è la catastrofe, ma la reazione dell’uomo alla catastrofe: prima di conoscere il virus, DeLillo già immagina che non sarà questo l’evento definitivo ma il successivo, la fine della tecnologia che quotidianamente ci governa, da cui ci facciamo dominare. Se le persone non possono più camminare per strada guardando il cellulare, però, non sapranno più cosa guardare. Ecco che lo spiazzamento dei personaggi trova il simbolo in una breve notazione mentale: «Le cose semplici, descrittive, che fine avevano fatto?». Già, dove sono finite? È possibile vivere senza? Nell’incipit Jim legge in automatico le scritte che scorrono sul display dell’aereo, anche in francese, perché non importa la lingua, conta solo la meccanica dello scroll. Poi Max improvvisa una telecronaca privata del Super Bowl che non vede, un racconto immaginario in grado di cambiare voce e tono, perfino di enunciare la pubblicità. Il silenzio costringe alla parola: perché l’uomo, privato del suo aspetto compilativo che oggi ricopre tutto, deve affrontare la vera tragedia, il confronto con se stesso. La fine delle macchine. Tornare a pensare. Pur di non farlo, si rifugia nella robotica degli schermi ormai dissolti e prova a continuare quel mondo.
Nel racconto Modulazione, l’autore premio Pulitzer Richard Powers evoca un virus che si diffonde attraverso la musica, un brano inascoltabile infetta tutti i dispositivi, cuffie e cuffiette: «Entro quarantotto ore molte, molte persone sarebbero andate in giro con i loro auricolari senza filo nelle orecchie, i loro dispositivi multimediali da miliardi di dollari, bloccati. La musica personalizzata non sarebbe mai più stata sicura. Le persone avrebbero ricominciato a cantarsi le canzoni a vicenda». Se in Powers con la fine della musica digitale le persone ricominciano a cantare, in DeLillo il concetto viene perfino esteso: devono ricominciare a pensare e parlare. Ma questo è ormai impossibile.
Il silenzio si avvita così in una deriva paranoica che mette in dubbio ogni cosa, qualsiasi superficie che rifletta l’immagine. Perfino uno specchio: «– Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti, – diceva Martin. – La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono anche gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione?».
L’oscuro scrutare di DeLillo, Philip Dick del contemporaneo, è in grado di guardare oltre il presente e rivolgersi al prossimo futuro: uno schermo nero senza più immagine sarà la fine del mondo. Fosse un film, potrebbe girarlo Abel Ferrara, quello di 4:44 Last Day on Earth. Fosse reale, al tempo delle piattaforme sarebbe anche la fine del cinema. Non potreste leggere nemmeno questo articolo.