Cosmopolis
Cronenberg adatta De Lillo con fedeltà assoluta, confrontandosi con la smaterializzazione del reale e la crisi del mondo occidentale e dei suoi elementi costituenti, a partire dal linguaggio.
Pubblicato nel 2003, Cosmopolis di Don De Lillo è un romanzo scritto sul tessuto cicatriziale di ferite ancora di là da venire, una profezia racchiusa nel momento eterno che intercorre tra il movimento del braccio, lo sferrare rapido il colpo del coltello e l’aprirsi silenzioso della carne, purpurea promessa di rivoluzioni in lento avvicinamento. È un processo di riconoscimento nevrotico e indolente, l’attestazione dei limiti e forse della propria morte da parte di un sistema ritenutosi autonomamente infallibile. Era ed è la fine del mondo, pronta e perfetta per rivivere nelle mani del regista canadese: Cosmopolis di David Cronenberg è una lapide di celluloide, è la tomba del futuro.
Eric Packer (un Robert Pattinson inquietante e sotto le righe, all’altezza di un ruolo non facile) è un po’ il Leopold Bloom del 21° secolo, protagonista e vittima di un’autoimposta odissea lunga un sol giorno, nella quale cercherà di attraversare una Manhattan densa di incontri e ostacoli per giungere al suo obiettivo, tagliarsi i capelli. Erick del resto ha tutto quello che può desiderare tranne la capacità di desiderare ancora; figlio di un mondo solo accidentalmente coincidente col nostro, incarna in sé tutti i tratti e gli umori del neocapitalismo occidentale, compresa una magnetica e tendenziale deriva verso l’autodistruzione. Squalo di Wall Street e ricco a dismisura, Eric vive di respiri finanziari, legge e interpreta un mondo di numeri e valori e informazioni che manipola e trasforma «in qualcosa di orribile»; è alienato e disumanizzato e la sua sconnessione dal reale è quella dell’intero sistema capitalistico, che nella sua fame onnivora e metastatica ha infettato il tempo con il denaro, rovesciando le equazioni e liberando una corsa sfrenata che ha scambiato i centri di potere, facendo decadere l’uomo e la parola a favore degli oggetti e delle astrazioni. Non a caso a scandire la giornata rappresentata da Cosmopolis ci sono due minacce mortali; la prima è quella incarnata da Benno Levin (un Paul Giamatti che arriva all’ultimo, chiude il film nei suoi venti minuti di dialogo e lo marchia a fuoco, in tutta la sua splendida schizoide inadeguatezza), alter ego di Eric, scarto di sistema che ha preso eccessivamente coscienza di sé; la seconda è la manovra finanziaria dello stesso Eric, che rivela via via la sua natura suicida. Lo Yuan, la moneta cinese che continua a salire mandando così in briciole il patrimonio finanziario del magnate, è il manifestarsi concreto della fine di un’era, l’impertinente bussare di un nuovo futuro che nasce dall’imprevedibilità e straccia ogni splendido incubo che avevamo potuto immaginare su di esso. Non a caso nel confronto finale sarà Benno stesso a mostrare a Eric come la contraddizione e il limite del controllo assoluto fossero già presenti e intrinseci nel suo corpo, nell’asimmetricità della loro prostata, opposta per antonomasia al dittatoriale monopolio della mente.
Rispetto a De Lillo, al suo Eric Cronenberg non risparmia nulla, non offre appigli; il percorso fatto in macchina e gli incontri di cui è costellato sono le tappe di un processo di annichilimento esistenziale, ma se lo scrittore offre al suo squallido personaggio uno spiraglio di verità – il sesso con l’altrimenti intoccabile moglie, quella Elise Shifrin che compare puntualmente per le strade della città riproponendo ogni volta la propria natura catartica di purezza irraggiungibile – il regista lo depaupera ancor di più, accentuando con la semplice rappresentazione visiva la natura grottesca e assurda del suo potere. Cosmopolis è una farsesca sciarada sui limiti del controllo umano.
Scorrendo la sua filmografia appare evidente come Cronenberg si muova a suo agio nella transcodificazione di opere letterarie; a oggi almeno otto sono i film che derivano da racconti, romanzi o graphic novel pre-esistenti, e con molti di essi il risultato è stato superlativo (Crash, Spider, Il pasto nudo, A History of Violence). Allo stesso tempo Cosmopolis offriva una componente assolutamente inedita per il regista canadese, il denaro, tema finanziario e filosofico che attraversa molti dei dialoghi del film e genera di fatto l’intera vicenda. Abitato fino all’estremo da questi e altri discorsi, Cosmopolis è un film che si presuppone di portare con sé nella celluloide tutta la potenza dei simboli che vivevano nella carta di De Lillo, trasfusi in un copia-incolla tanto chirurgico quanto rischioso. Diverse sono le occasioni in cui il regista ha affermato che il vero motivo per cui aveva accettato di lavorare alla trasposizione erano stati i fulminanti dialoghi del romanzo, e non a caso questi sono riportati con fedeltà quasi assoluta nella sceneggiatura, firmata di suo pugno. Un tipo di transcodificazione estremamente rischioso questo, che infatti ad un primo livello di lettura del film appare insufficiente. Fin dai primi istanti è evidente la scelta di Cronenberg di calcare il carattere di immedesimazione proprio del romanzo, eliminando ogni punto di vista esterno e rendendo l’ipertecnologica limousine di Eric a tutti gli effetti la sua mente; seduto sul suo argenteo trono di pelle e metallo levigato, il dio del mondo occidentale riceve uno ad uno gli spettri che lo abitano e lo seguono, relegando l’interazione con il mondo reale alle figure agitate che si muovono oltre il vetro, o dentro lo schermo. E’ pura osservazione Eric, uno sguardo che si divide tra la piena incuranza e la curiosità tormentata di chi è escluso dai luoghi che cerca di scoprire, e come lui anche i suoi ospiti non possono che rimanere intrappolati in digressioni filosofiche mentre fuori il mondo esplode, si sgretola e dà fuoco, e lo spettro di ciò che era si aggira sotto forma di un topo. E’ un luogo abitato da parole, Eric, discorsi che paiono azzoppare la possibile visionarietà di un film che rimane invece rigidamente ancorato alla propria dimensione letteraria; ad aspettarsi ad esempio la disamina tra corpi e macchine di Crash si rimane delusi, le curve e cavità sinusoidali della limousine ci sono, ma lo sguardo che si poggia su di esse non è più escavatore e morboso ma apparentemente arreso alla fusione: la macchina è Eric.
E’ quindi un mondo di parole Cosmopolis, dotato solo di poche ma fondanti soluzioni di aperta traduzione filmica, ma lo spiazzamento dovuto a quest’estrema – forse eccessiva – fedeltà alla genesi letteraria nasconde in realtà un’altra dimensione funerea, un occulto mondo di morte che nasce dalla fedeltà linguistica per trovare da essa origine e in essa giustificazione. Per comprenderlo basti tornare all’ opposto A Dangerous Method, incentrato sull’ambivalente potere guaritivo e infettivo del linguaggio. «Lo sanno che stiamo portando loro la peste?» dice Freud a Jung al momento di sbarcare in America, palesando la natura pandemica della «talking cure». E’ la parola a collegare e legittimare entrambe le pellicole, ma se in una essa era organismo vivo e carico di potenzialità nella seconda è ritratta sul punto di perdere ogni suo potere significante. Pur parlando in continuazione i personaggi di Cosmopolis raramente si capiscono, la maggior parte delle volte tirano dritti come linee parallele e quando effettivamente discorrono capita spesso che uno sia in ritardo sull’altro, che le parole si perdano e sia necessario ripeterle. «Fammi stare zitta» ripete più volte la mercante d’arte interpretata da Juliette Binoche; «Non ci capisco niente» recita Vija Kinski, l’analista di teorie; Eric stesso si interroga sul valore dei termini in lenta estinzione, mentre è una parola ad attivare la pistola di Torval e uccidere. È la parola la grande vittima di Cosmopolis, la sua fine come mezzo di comunicazione e veicolazione di concetti, perché in qualsiasi mondo si viva, per quanti siano i soldi che si spendono, un significante non può sopravvivere al proprio significato. Cosmopolis è la tomba del linguaggio.