Euphoria - Stagione 1
Serie-manifesto della Generazione Z, "Euphoria" delinea lucidamente nevrosi e ansie dei suoi protagonisti senza mai scadere in facili moralismi.
Euphoria è un universo iperreale, stratificato, traslato. Non c’è pretesa di verità, o meglio, di verosimiglianza assoluta nella rappresentazione di questa gioventù formicolante, dissezionata puntata dopo puntata dall’onnisciente voce fuori campo di Rue (Zendaya): la vita dei ragazzi e delle ragazze che Sam Levinson raffigura pare così scorrere sotto uno strato di epidermidi e corpi denso e magmatico, fatto di eccesso, immagini innaturali e, come muovendosi in uno stato di trance “euforica” incontrollata, di continue allitterazioni visive e sonore. Ma soprattutto di fantasmi. A inseguire questa gioventù è lo spettro di qualcuno o qualcosa, madri, padri, aspettative e angosce, finendo in questo modo per contorcersi sul solo e unico presente: esacerbati all’ennesima potenza, i giovani di Euphoria sono tutti disseminati in una specie di alveare cybernetico, quello dei social, l’unico in cui ci si può conoscere “davvero” e nel profondo (come nel caso di Jules e Nate) e in cui si possono trarre profitto e vantaggio personali dal revenge porn, come agirà infatti Kat. C’è poi il sesso visto come necessaria iniziazione, performativo, vischioso e vissuto unicamente in sé stessi e mai nel completamento con l’altro e nell’altro.
Si tratta di temi per la maggior parte già accennati nel precedente Assassination Nation, che molti hanno definito come il riadattamento nell’epoca dei social network di Le regole dell’attrazione di Roger Avary, e di cui Levinson condivide, oltre che la coralità dei punti di vista – e quindi una direzione specifica nella scrittura, volta a un colpo d’occhio cumulativo – anche una riproposizione amorale e disinteressata della materia; conservando la medesima forza deflagrante della serie HBO, il film si rivelerà però essere una feroce e sanguinaria satira dell’America contemporanea, carnevalizzata e ridotta a macchietta.
La narrazione si dipana qui intorno alle figure delle quattro protagoniste che incarnano in un certo senso la disinibizione, il “peccato” che andrà a rivelare il reale e squallido volto del cittadino medio americano: turbato dalla nudità, da ciò che fuoriesce dai propri parametri esistenziali e impossibilitato a riconoscersi al di fuori del proprio Io, come se non ci potesse essere altra realtà al di fuori di quella standardizzata da un’etica congelata e monocorde. Tuttavia, se nel film ciò che si poteva comprendere erano unicamente le idee rincalzate dalle quattro ragazze e mai le rispettive individualità, in Euphoria si assiste, all’inizio di ogni puntata, all’indagine acuminata dei singoli, squadernati dalla voce profetica di Rue, per poi riuscire a comprenderne il ruolo o l’atteggiamento all’interno della comunità, per cui l’approccio di Levinson si configura in questo senso meno spiccatamente politico e più intimista.
Attraverso uno stile fondato sul grado più alto di artificio e stilizzazione dell’immagine, eccentrica e coi piani scomposti, la messa in scena bizzarra e difforme e aderente al mondo raccontato, Levinson costruisce un teen drama a sé stante, che intende dissigillare e mandare in crisi le categorie rappresentative del suddetto genere alla stregua di serie come Sex Education, e lo fa delineando anche alcuni particolari personaggi. Ci vorrebbe tanto altro spazio per rivelarne le contraddizioni e le debolezze, poiché tutti vengono equamente e spudoratamente sviscerati. Senza moralismi e retorica. Ed è forse il personaggio di Jules più che Rue che, d’altra parte, le fa da contraltare, a definire il senso complessivo dell’opera di Levinson: reso come in una condizione di permanente incandescenza, si potrebbe dire che Jules incarni una minaccia all’ordine precostituito, a tutto ciò che è consono, pronto, anzi pronta, a ridefinirsi, a rinascere sempre: una nuova possibilità di essere al mondo.