Challengers
Un film che si inserisce con piena coerenza nella filmografia di Guadagnino, e le pone al contempo sfide nuove e ardimentose: come si coniugano il “cinema del languore” e l’epica sportiva? Come possono, corpi abbandonati ed efebici, protendersi nel gesto atletico perfetto, atto sovrumano di volontà?
Luca Guadagnino è nato in Sicilia nel 1971. A dispetto del numero vergato sulla carta di identità, però, è un autore fanciullo – e dunque, negli anni 20 di questo secolo, un autore della Generazione Z. Lo è diventato grazie a una trilogia un po’ sghemba – Call Me by Your Name, We Are Who We Are e Bones and All – , tre canti sentimentali e insieme politici che rivendicano fin dal titolo le urgenze identitarie care allo spirito del tempo. Della Gen Z Guadagnino intercetta il mood, i simboli e i volti (lancia Timothée Chalamet, tanto per dire) ma riesce soprattutto in un’impresa portentosa: il suo cinema è compiutamente queer nella misura in cui arriva a dar forma a ciò che, per definizione, forma non ha. È un cinema che sa rappresentare appieno la fluidità, in tutte le sue accezioni possibili: essere fluidi significa rigettare convenzioni e ansie definitorie, essere e amare chi si vuole, ma anche abbracciare uno stato liquido, sfuggente, di sfumata melanconia. Opere come We Are Who We Are nuotano in un languore che flirta con l’abbandono e sconfina in una forma laica di cupio dissolvi (non a caso, Guadagnino frequenta volentieri i paesaggi acquarellati del Nord Italia – lui che, borbonico e massimalista, potrebbe tranquillamente fare il Dolce & Gabbana del cinema italiano).
Challengers, ambientato nel mondo del tennis agonistico, si inserisce con piena coerenza nella filmografia di Guadagnino, e le pone al contempo sfide nuove e ardimentose: come si coniugano il “cinema del languore” e l’epica sportiva? Come possono, corpi abbandonati ed efebici, protendersi nel gesto atletico perfetto, atto sovrumano di volontà? E ancora: c’è spazio per i palpiti mélo cari al regista, nella drammaturgia meccanica del racconto sportivo? L’apparente contraddizione è risolta nella proposta coraggiosa di un cinema pansessuale: l’elettricità statica che percorreva i corpi acerbi di Call Me by Your Name e Bones and All, animandoli di vibrazioni incerte e latenti, accende i protagonisti di Challengers di una vitalità piena, compiuta, prepotente. Il personaggio di Tashi Duncan, incarnata da Zendaya in una prova di nervosa perfezione, è il centro gravitazionale e l’anima del film: tennista magnetica e feroce, che un maledetto infortunio trasformerà in “promessa mancata”, Tashi diviene il vertice di un triangolo amoroso e incestuoso con due fratelli-nemici, Patrick (Josh O’Connor) e Art (Mike Faist).
Zendaya è l’oggetto del desiderio irraggiungibile, la promessa di una felicità destinata a infrangersi, ma è anche Guadagnino: la regista, la demiurga, l’arbitro di gara. È la depositaria del “verbo” dell’autore, che non a caso, in una delle prime scene del film, le mette in bocca parole che sanno di manifesto programmatico: giocare a tennis – dice lei – è come fare l’amore. Quest’equivalenza informa di sé l’ossatura narrativa di Challengers e le scelte stilistiche che gli danno carne e sostanza. La trance agonistica è la trance erotica, il campo da gioco è lo spazio geografico in cui si inscrivono geometrie sentimentali complesse. Le regole del tennis irreggimentano e insieme assecondano precise leggi del desiderio, mentre il gesto tecnico perfetto, che chiude game set e match, è l’orgasmo a cui s’approda alla fine dell’amplesso.
Nel finale di Challengers, frenetico e commovente, il gioco si fa scoperto. Già da qualche minuto la pallina aveva cominciato a schizzare da una parte all’altra del campo chiamando a sé la macchina da presa, lanciata all’inseguimento delle sue traiettorie ubriache. La partita decisiva che fa da cornice a tutta la vicenda culmina nella foga di un abbraccio omoerotico (doppio fedele, anche nella composizione del quadro, di una scena d’amore speculare e gemella, consumata sul letto di una camera d’hotel). Ecco, quell’abbraccio finale è un’immagine limpida, un’esplicita chiave di lettura del racconto: la vera storia d’amore è quella tra Patrick e Art. Il punto è che Challengers non è un film “sottile”. Guadagnino è un esteta ingordo, che non ha paura di affidarsi ciecamente al proprio gusto. Non ha paura nemmeno del kitsch, e si concede di conseguenza immagini scopertamente patinate: frequenta gli spazi dei più triti porno gay (la sauna, gli spogliatoi), seziona al microscopio muscoli turgidi e gocce di sudore. Reclama un tempo cinematografico disordinato ed elastico, che permette brusche accelerazioni e lunghe parentesi digressive – il ralenti, non a caso, è figura ricorrente e pervasiva del film. La musica può irrompere di prepotenza, pompando ogni scena di pulsazioni adrenaliniche. Il cinema di Guadagnino è ossessionato dalla forma e nondimeno pare posseduto da una fascinazione infinita per immagini organiche – con la macchina da presa che volteggia come in un rituale d’accoppiamento, che sublima con la sua danza una penetrazione impossibile.
Questo dualismo si impernia su una tessitura mélo di estrema complessità: la scrittura di Challengers si allinea al battito non di uno, ma di tre cuori. I personaggi sono superfici, corpi plastici da contemplare da vicinissimo, ma sono anche volumi, percorsi da mondi interiori ben cesellati. Le leggi di attrazione disegnano traiettorie imprevedibili ma credibili, tratteggiano psicologie perverse e affascinanti, animate da sentimenti tanto intensi da chiamare a sé la furia degli elementi (l’uragano che si scatena nel prefinale del film).
Ha del miracoloso, che Guadagnino sia riuscito a inscrivere questa coreografia sensualissima nel campo da tennis – uno sport aristocratico, elegante, cerebrale; uno sport “non di contatto”. Il prodigio prosegue dopo i titoli di coda: cosa sono gli outfit “tennistici” sfoggiati da Zendaya in occasione dei numerosi eventi di promozione del film? Rielaborazioni giocose e camp dei codici della moda sportiva: stilemi dello sportswear strappati all’imperativo barboso della comodità, liberati dal grigiume del “buon gusto”. Challengers può anche questo, tutto è desiderio, tutto è gioco, tutto è vita. Io, Luca Guadagnino, sono l’amore.